Leave her to heaven – non è la solita femme fatale!
Il cinema americano della Seconda guerra mondiale e degli anni immediatamente successivi ad essa ha, come è compito e destino delle arti, allo stesso tempo raccontato ed aiutato a delineare i cambiamenti della società in cui esisteva. Tra le trasformazioni più significative e complesse ci fu, come prevedibile, quella del ruolo della donna, che, in un mondo stravolto così violentemente nel breve arco di una generazione, ha rispecchiato tutte le contraddizioni tipiche dei periodi storici cosiddetti spartiacque.
In questi anni, come ben sappiamo, negli Stati Uniti ancor più che in Europa, la donna si è ritrovata a dover farsi carico del lavoro dell’uomo chiamato al fronte. La propaganda statale americana, come racconta Michael Renov nel suo saggio The Double Bind of the Post-War Woman, si adoperò con energia per puntare il proprio ingombrante dito contro la donna “inattiva”, le cui mani non erano gloriosamente rovinate dal lavoro, e la cui pigrizia era causa diretta della prematura fine di giovani, eroiche vite – gli appelli radiofonici alle potenziali lavoratrici erano spesso preceduti dalla lettura dei nomi di caduti locali, per aumentare il senso di colpa delle pigre donne che si occupavano solo di figli, casa, genitori, ecc. Quindi, la donna che si decideva ad occupare le posizioni lasciate vacanti come conseguenza dello sforzo bellico, era considerata cittadina esemplare da prendere a modello – ma anche da non esaltare, per carità, in quanto essa adempiva semplicemente al proprio dovere. Dobbiamo però anche ricordare come, nell’America della Depressione, lo Stato avesse cercato con tutte le sue forze di dissuadere i suoi cittadini di sesso femminile dal lavorare, in quanto avrebbero rubato il posto agli uomini, che, oltre a ritrovarsi logicamente (?) disoccupati ed incapaci di mantenere la propria famiglia, si sarebbero sentiti feriti nella loro virilità.
Alla sovrapposizione di questi due messaggi completamente contrastanti, certamente causa di profonde e durature insicurezze generazionali, se ne aggiunse, nell’immediato dopoguerra, un’altra, forse anche più destabilizzante e contraddittoria. Prontamente licenziata per far posto ai precedenti occupanti della sua posizione, la donna si ritrovò nel giro di pochi mesi a dover far fronte a tutto un nuovo set di valori – nuovo per modo di dire. Il suo compito da brava cittadina e patriota era, adesso, quello di accogliere e rimettere in sesto i veterani, spesso traumatizzati o mutilati o entrambi, di prendersene insomma cura con dedizione per aiutare ad accelerare il loro reinserimento in quella società che li aveva visti partire ragazzi e tornare come vecchi.
La sposa / crocerossina amorevole doveva, però, allo stesso tempo, procreare – e in abbondanza! Le terribili perdite umane subite andavano compensate nel minor tempo possibile, o l’America avrebbe perduto il suo status, ancora così nuovo, di guida per tutti gli altri Paesi occidentali. Ora, lo Stato era incapace di, o piuttosto, poco interessato a, considerare la donna un qualcosa di complesso e poliedrico: essa doveva essere al cento per cento sposa ideale e rigeneratrice, e madre dedicata esclusivamente ai figli: come conciliare questi due ideali divini, totalizzanti, ed estremamente impegnativi in una persona sola, non era un problema cui lo Stato aveva tempo né voglia di dedicarsi, sostenendo che quelli di madre e moglie erano dopotutto i ruoli tradizionali della donna la quale, dopo essere stata capace di dedicarsi brillantemente ad altri nuovi compiti, durante lo sforzo bellico, sarebbe stata di certo più che in grado di tornare ad adempiere con successo questi suoi così abituali doveri.
Tale modello contraddittorio è tipico dei meccanismi familiari ed affettivi in generale cosiddetti a doppio legame – quelli in cui la comunicazione presenta incongruenze, principalmente tra il livello verbale e quello non verbale. L’oggetto di questa dinamica, tanto confusionaria quanto spietata nel suo regolare ripetersi, si ritrova ad essere incapace di associare un significato unico a messaggi verbali e / o comportamenti, rimane pertanto vittima di uno o più paradossi emotivi e relazionali, e, non riuscendo ad uscire da questo schema, diventa incapace di valutare correttamente i legami tra comunicazione esplicita ed implicita[1]. Similarmente, l’insieme dei chiassosi messaggi della propaganda statale americana non era affatto considerato contraddittorio, né tanto meno analizzato, o affrontato come tale.
Proprio come questa dinamica rimase per molti anni una componente nascosta nel problema della percezione di sé e del proprio valore per la donna americana del dopoguerra, un simile scenario costituisce la condizione originaria della patologia del personaggio principale di Leave Her to Heaven, Ellen Berent. Uno dei capolavori del cinema americano di questo periodo, Leave Her to Heaven non è però uno dei suoi film più noti probabilmente anche a causa della sgradevolezza del suo tema principale – la gelosia malata della bellissima e inquietante protagonista.
Il primo noir statunitense ad essere girato in un sontuoso technicolor, Leave Her to Heaven racconta la drammatica storia d’amore tra Ellen, interpretata dalla meravigliosa Gene Tierney, e l’oggetto della sua passione, Richard Harland, un giovane e piuttosto noto scrittore (Cornel Wilde). L’incontro tra i due, che avviene in una carrozza di prima classe, è forse una delle scene esteticamente più interessanti del film; anticipando quello che sarà il filo conduttore della vicenda, la scena è narrata dal punto di vita di Richard che, alzando lo sguardo, nota una giovane donna seduta di fronte a lui immersa nella lettura del suo ultimo romanzo – il volto coperto da quello del ritratto di lui, in bianco e nero, sulla quarta di copertina.
Già lieto di potersi concedere questo delizioso momento di narcisistico appagamento, Richard è ancor più piacevolmente sorpreso dall’incredibile bellezza della sua lettrice, la quale, chiudendo il libro per schiacciare un breve sonnellino, rivela delle fattezze che sembrano scolpite nel marmo. Il libro le scivola dalle mani, e Richard si affretta a raccoglierlo e a porgerlo galantemente alla bella dama dalla chioma rossa. E subito la nostra incantevole protagonista rivela la sua “stranezza”; svegliandosi di colpo per il rumore del libro caduto in terra, lo prende confusa dalle mani di Richard, fa per ringraziarlo ma, colpita da qualcosa nel suo volto, spalanca degli incredibili occhi blu e lo fissa spudoratamente, con uno sguardo a metà tra l’interrogativo e lo stupefatto – a lungo, troppo a lungo, come incantata. Quando finalmente torna in sé, Ellen si giustifica sorridendo, spiegando che Richard assomiglia in maniera straordinaria al suo da poco defunto padre.
In breve tempo i due si innamorano – o meglio, Richard viene inesorabilmente attratto dall’aura magnetica della volitiva Ellen, che guida il breve corteggiamento con la stessa mano sicura con cui, al galoppo, disperde le ceneri del padre vicino alla splendida tenuta di famiglia nel New Mexico, amazzone fiera e tragica allo stesso tempo. Ellen è diversa da chiunque altro, come Richard ammette durante il loro primo breve scambio di battute, ed è proprio questa sua diversità, unita ad una bellezza contemporaneamente superba e tenera, a renderla in un primo momento irresistibile. Rompendo senza indugio il suo fidanzamento (il fidanzato rifiutato è un eccellente Vincent Price che ricomparirà, spietato e vendicativo, nella scena finale del film), Ellen chiede a Richard di sposarla, il quale, sempre più ammirato, praticamente incapace di intendere e di volere, stregato insomma da quel mix di impulsività, forza, bellezza, ed indefinibile stranezza che caratterizza Ellen, accetta. Ahilui, perché la passionale Ellen si rivela ben presto essere decisamente un po’ troppo per l’ingenuo giovane scrittore, per molti versi ancora un ragazzino.
La grandezza di Leave Her to Heaven sta nella complessità del personaggio di Gene Tierney, che domina lo schermo con i suoi occhi che passano dalla più bruciante intensità alla più gelida compostezza nel giro di un battito di ciglia, ed incantano noi spettatori come una sirena che sappiamo non potremo mai possedere né comprendere. E invece. Sorprendentemente, Ellen si rivela essere invece ben lontana dalla classica femme fatale, e il suo tormento interiore ci viene mostrato pian piano, avvicinandoci a lei quando nessun altro sembra in grado di vedere oltre la sua impossibile bellezza. E proprio questo è il dramma della donna – Richard si fa di lei in quattro e quattr’otto un’immagine da cui sarà poi incapace di discostarsi; la madre e la sorella non accennano a volerla avvicinare davvero, invidiose, forse ferite; perso l’adorato padre, insomma, Ellen non ha più nessuno in grado di guardare attraverso la maschera che le è stata affibbiata, e più cerca di farsi capire, meno viene accettata, amata. La malata dinamica familiare in cui è cresciuta, che comunque possiamo solo intuire da pochissimi accenni, e che viene portata avanti dall’uomo che avrebbe potuto spezzarla, ha segnato questa giovane donna acuendo probabilmente la sua sensibilità innata, e incancrenendo un comportamento ossessivo.
Girato con grandissima eleganza ed empatia, e velato da un’ironia quasi impalpabile, Leave Her to Heaven è un vero piacere – una gioia per gli occhi e un tormento per il cuore. Il goffo, drammatico tentativo di Ellen di essere “normale”, di soddisfare le aspettative, di creare un suo mondo secondo le regole del matrimonio perfetto da lei idealizzato, nel claustrofobico ambiente familiare in cui si ritrova, anche dopo il matrimonio, intrappolata, la rende una delle cattive del cinema noir più affascinanti e tragiche di sempre.
Anno | 1945 (USA)
Regia | John M. Stahal
Cast | Gene Tierney, Cornel Wilde, Jeanne Crain, Vincent Price
[1] Bateson G., Jackson D. D., Haley J., Weakland J., Toward a theory of schizofrenia