Suite Francese di Irène Némirovsky | La guerra non è mai stata così dolce
“Parigi aveva il suo profumo più dolce, quello degli ippocastani in fiore e dell’essenza mischiata a granelli di polvere che scricchiolano sotto i denti come grani di pepe”: breve, concisa ma efficace metafora della Paris en guerre, quella di Irène Némirovsky nella sua Suite Francese.
Dolce, come il titolo attribuito alla seconda parte del romanzo che si introduce al lettore aprendo le modeste porte di casa Angellier, ma allo stesso tempo amara, scricchiolante e rumorosa come il passo cadenzato e indimenticabile degli stivali tedeschi.
Temporale di Giugno è il nome di battesimo con cui si apre l’intera opera, precedente Dolce. Il primo capitolo si intitola Guerra, il primo conflitto mondiale che squarciò gli animi dei francesi e del mondo intero. Originariamente cinque, le parti rimaste sono solamente due: Irène Némirovsky, nata a Kiev nel 1903, le compose nel 1942 nei mesi antecedenti il suo arresto, la sua deportazione a Pithiviers prima e ad Auschwitz poi, consegnandoci un racconto monco. Amputato di buona parte del suo corpo, non ci negò però la scoperta di un’incredibile opera letteraria di inestimabile valore che vedrà di nuovo la luce della Francia solo nel lontano 2004, consacrando la riscoperta internazionale dell’autrice.
Postumo, il romanzo rivive grazie alla figlia Denise Epstein che, insieme alla sorella Elisabeth, riuscì a sfuggire agli orrori dei campi nazisti portando con sé una valigia contenente il tesoro della madre. Col senno di poi, l’opera fu trascurata da Denise la quale, in preda ai dolori della malinconia per la perdita subita, non si attentava a leggerne le righe, scambiate per un mero e semplice diario intimo.
In seguito, le due sorelle (Elisabeth divenne dirigente editoriale sotto il nome di Elisabeth Gille) ne affidarono la salvezza all’Institut Mémoire de l’Edition Contemporaine. Le parole così scoperte rivelarono l’affresco più fedele e insieme realistico che la Francia potesse aver richiesto: cinico ma al contempo pacato, risoluto, quasi rallentato, come se il tempo per le strade segnate dai passi, “simili a spighe di grano piegate in un giorno di tempesta”, si fosse fermato.
La narrazione si srotola sulle luci dell’alba di Parigi, il 4 Giugno 1940, insieme all’esodo incessante dei cittadini verso il sud del paese, in un vero romanzo popolare. Tra questi i passi sono differenti: ci sono quelli concitati, borghesi e notarili della famiglia Péricand, guidata da un’incrollabile fiducia della signora di casa, Charlotte, nel popolo: “non sono cattivi, basta saperli prendere”. Insieme a lei, il marito e il suocero, poi dimenticato, e i cinque figli: Philippe, fattosi prete, si occupa di un gruppo di orfanelli ad Alvernia mentre il secondogenito, Hubert, si lancia in un’impresa alla braveheart inseguendo i suoi connazionali al fronte. Ed ecco i passi inorriditi di fronte al volgo inetto dello scrittore Gabriel Corte nel suo viaggio verso Vichy accompagnato dall’amante Florence che, a seguito dello stress accumulato per gli eventi in corso, “si allontanò dallo specchio inorridita”.
E ancora la famiglia Michaud, costituita da Jeanne e Maurice, piccoli borghesi che, ignari delle sorti dell’unico figlio militare Jean-Marie, si dirigono a Tours per continuare l’attività bancaria che conducono assieme agli altri colleghi. Infine Charlie Langelet, un ormai anziano benestante,presuntuoso ed opportunista, con una spasmodica adorazione indirizzata unicamente verso la propria collezione di porcellane.
Sotto il Temporale di Giugno si confondono i passi incespicanti dei personaggi per lasciare spazio al focolare domestico di casa Angellier, dove la vedova e Lucile, sua nuora, aspettano invano Gaston, figlio e marito.
È qui, a Bussy, un paesino di campagna sperduto nel centro della Francia occupato dai tedeschi, che l’amore ritrova forma e tempo nel connubio impensabile tra Lucile e Bruno von Falk, un ufficiale tedesco, il tutto scongiurato e tiranneggiato dall’irremovibile occhio della suocera.
“I tedeschi occuparono le case, i negozi, i caffè. Gli stivali risuonavano sulle mattonelle rosse delle cucine. Chiedevano da mangiare, da bere. Passando accarezzavano i bambini. Gesticolavano, cantavano, ridevano in faccia alle donne. La loro aria felice, la loro ebrezza da conquistatori, quella febbre, quella follia, quell’allegria mista a una sorta d’incredulità, quasi stentassero essi stessi a credere alla loro avventura, tutto questo era d’una tale tensione, d’una tale emozione che i vinti dimenticavano per qualche istante il loro dolore e il loro rancore. Li guardavano a bocca aperta”: così descriveva Némirovsky l’incessante incalzare del nemico sul suolo natio, senza celare un sentimento misto di stupore e sconforto.
Dall’inizio alla fine, il racconto trasuda – a dispetto delle situazioni affrontate e degli argomenti trattati – un caldo romanticismo incastrato tra le parole dell’intera narrazione, illuminata dallo stesso sole di quell’ultima giornata di giugno su cui Parigi, addormentata, si spegne. L’autrice non nasconde un fervido amore per i dettagli, le piccolezze della quotidianità intrise della storia del secolo che rendono questo romanzo un diletto per gli occhi e un balsamo per l’anima, e l’orecchio sordo alle bombe: la guerra è presente, costante, braccio che afferra stretto le due parti del manoscritto, ma il lettore sembra quasi scordarsene, perso nel fresco calore della tarda primavera: “gli eventi gravi, felici o meno, non cambiano la natura di un uomo, ma la definiscono, come un colpo di vento, spazzando all’improvviso le foglie morte, rivela la forma di un albero; mettono in luce ciò che era rimasto in ombra; danno allo spirito l’inclinazione che d’ora innanzi seguirà.”
Il romanzo avrebbe dovuto comporsi di altre tre parti il cui titolo rimane ignoto eccetto che per una, la terza, Captivité. Irène Némirovsky sognava un’opera di mille pagine avente la forma di una sinfonia, prendendo a modello la Quinta, appunto, di Beethoven: l’autrice si fa direttrice d’orchestra e le sue parole divengono melodia, una musica che scorre sulle acque della Senna. Némirovsky riesce nel suo intento: con un ritmo veloce ma pieno, importante, mai scontato, ciò che più si ravvisa nell’opera è l’amore incontrastato per la vita che suona, anche se sopite, le proprie note.
“Che le passioni spinte al parossismo come lo sono adesso finiscono per spegnersi. Che tutto ciò che ha un inizio avrà una fine. In poche parole, che le catastrofi passano e che bisogna cercare di non andarsene prima di loro, ecco tutto. Perciò, prima di tutto vivere: primum vivere. Giorno dopo giorno. Resistere, attendere, sperare.”
Noemi Adabbo
Titolo | Suite Francese
Autore | Irène Némirovsky
Casa editrice | Adelphi
Anno | 2005