Gli Scheletri amari di Zerocalcare
“Io pensavo di andare a scuola guida, con altri come me. Invece mi sentivo buttato in una gara di Formula Uno in cui tutti già sapevano cosa fare. Conoscevano le regole, i comandi. Avevano già fatto le squadre. Li vedevo allontanarsi. E non è che io arrancavo. Io non riuscivo proprio a entra’ in gara. C’ho messo altri vent’anni a capire che certe cose non si imparano. O ce l’hai, o te senti così tutta la vita. E non esiste sensazione più mortificante al mondo”
Come per l’orecchio ritrovato nel giardino dal protagonista di Velluto Blu di David Lynch, il ritrovamento di un dito (due falangi) sul marciapiede davanti a casa del protagonista, nel cuore di Rebibbia, dà l’avvio alla vicenda. O meglio ai ricordi, ai tasselli di un puzzle che non si risolve se non nelle ultimissime pagine come ogni noir che si rispetti.
A differenza del film di Lynch, però, il pezzo di carne fattosi totem non apre squarci nella borghesia benpensante: il mondo intorno al protagonista di Scheletri è già piuttosto problematico, costellato di aspettative che si scontrano tutti i giorni con cemento, difficoltà personali ed una fauna urbana in cui l’eroina e la piccola criminalità vivono a fianco degli studenti universitari e delle sale giochi.
Quello che il dito apre, piuttosto, è una frattura dentro la lunga adolescenza del protagonista, dentro alle sue certezze e alle sue problematiche interpersonali e verso se stesso. Il dito (frutto, peraltro, di un evento davvero accaduto a Zerocalcare) è l’avvio di una storia che rimesta nel ricordo, ma anche negli antri bui della nostra coscienza, in quel “polpo alla gola” che cresce, alimentando mostri e demoni (con l’accento sulla o), che già in adolescenza diventano evidenti. E che vanno a costituire quegli “scheletri” nell’armadio di cui parla il titolo: quelle situazioni mai risolte dentro di noi, legate al nostro passato, ad amicizie e a storie ormai finite, ma mai del tutto chiuse.
Zerocalcare ribadisce con Scheletri un messaggio già apertamente dichiarato in Un polpo alla gola: nessuno guarisce dalla propria adolescenza. Pezzi di quel periodo così tremendo rimangono nelle nostre ossa o forse sottopelle o chissà dove altro nascoste dentro di noi, finché qualcosa non le fa riaffiorare. Senso di colpa? Sindrome dell’impostore? Jean-Claude Romand de Rebibbia? Qualunque cosa sia, riaffiorerà. E la divinatio, la vera svolta, sarà semplicemente accettarlo.
Scheletri è estremamente godibile e al contempo lascia il senso dell’amaro, del pugno allo stomaco, soprattutto sul finale. L’immaginario è quello ormai “classico” di Zerocalcare: la Rebibbia popolata di personaggi vividi (alcuni nuovi, altri ormai ben noti), quasi tutti eterni adolescenti, che faticano a diventare adulti, inzuppati nella cultura pop degli anni novanta e non solo. Ecco, l’apoteosi forse è stata leggere in meno di 300 pagine riferimenti a L’avversario di Carrère, a Cecità di Saramago, al Cacciatore di Cimino, alla videoarte di Bill Viola e ovviamente a StreetFighter.
Sembra che nelle mani di Zerocalcare ogni piccolo frammento di memoria, ogni ricordo di qualcosa o qualcuno incontrato lungo la strada possa generare una nuova storia – a pagina 10, per dire, c’è Noam Chomsky che aderisce per sbaglio a un evento di neonazisti scambiandolo per le nozze d’oro di Sandra e Raimondo (che sono morti, gli ricordano; ma “un’idea non muore”, dice lui). Dal namedropping a un micidiale storytelling è un attimo: le idee gli scoppiettano in testa e nelle mani come popcorn ed è un piacere quando proprio si vede che non riesce a trattenersi.
Calcare ormai incarna un immaginario precisissimo. E forse, in un certo senso, questa familiarità è anche il più grande limite di Scheletri, perché il nostro qui tende in fondo a ripetere stilemi che lo hanno reso famoso, famosissimo e mainstream, ampliando il discorso senza mai sostanzialmente variarlo. Sia chiaro: ce ne fossero di autori che ripetono così se stessi, a livello narrativo e pure grafico; sarebbe un mondo migliore, for real. E non dimentichiamo le origini contestatrici di Michele Rech, un microcosmo in cui l’attaccamento ai valori e alle proprie origini è tutto – una specie di conservatorismo rivoluzionario, ecco, in cui restare uguali è percepito come fedeltà a sé, non come immobilismo.
Eppure, Kobane Calling ci ha mostrato anche un altro aspetto di Zerocalcare: un fumettista inedito, un “graphic journalist”. Del resto, anche in Scheletri non mancano esempi dell’empatia e della delicatezza con cui l’autore è in grado di analizzare la società intorno a lui e trattare le marginalità: il personaggio di Osso e la sua tossicodipendenza, narrata con una delicatezza strepitosa; la violenza domestica di cui Arloc è vittima e conseguenza – c’è una sequenza ultraviolenta e sorprendente che proprio non potrete dimenticare, ma che dimostra come anche all’apice del pulp Zerocalcare non riesca mai a divertirsi con la violenza, perché l’ha vista troppo da vicino; non è il 1996, Rech non è Brizzi, Scheletri non potrebbe mai essere compiaciuto come Bastogne.
Ci piacerebbe che Calcare “crescesse” nei temi trattati, o quantomeno ci raccontasse gli aspetti più politici della sua visione (non so, la butto lì: il suo G8). Del resto, la percezione è che anche lui se ne renda conto nelle ultime tavole del libro, quelle in cui gli scheletri e i mostri del passato tornano per fare i conti con noi e dirci che, in fondo, si può davvero lasciare andare tutto e proseguire.
di Francesca Bianchi, Francesco Pandini e Alessandro Pigoni
Titolo | Scheletri
Autore | Zerocalcare
Casa editrice | Bao Publishing
Anno | 2020