The Last Of Us Part II | La banalità del male tra distopia e desiderio di vendetta
“At this point I have a request for our fans. If any of you hate homosexuals, people of different colors from yours or women, please do us the favor of leaving us alone! Don’t come to our concerts and don’t buy our records”.
Con le parole di Kurt Cobain, Neil Druckmann, vicepresidente di Naughty Dog, si era scagliato contro una fetta di pubblico che, dopo l’uscita dei vari colpi di scena trapelati a causa dei leak del gioco, si era rifiutata di acquistare l’ultimo successo pubblicato da Sony Interactive Entertainment. Impossibile dargli torto: l’esperienza videoludica dura circa 33 ore (giocando in modalità normale), propone un continuo cambio di registro narrativo ed affronta molteplici tematiche sociali (ne abbiamo già parlato qui).
È difficile definire The Last of Us un semplice prodotto commerciale: i temi trattati, dal desiderio di paternità a quello della vendetta e della ricerca dell’identità sessuale, rendono questo titolo impossibile da inserire in un genere predefinito. Dell’enorme potenziale si è accorta l’emittente HBO, che svilupperà una serie basata sul videogame in collaborazione con lo stesso Druckmann ed il cui showrunner sarà Craig Mazin, autore della miniserie Chernobyl.
The Last of Us: Part II prosegue la narrazione del primo videogame ed il giocatore ha modo di scoprire cosa sia accaduto ai protagonisti Joel ed Ellie, alle prese con un virus che intacca il cervello e provoca un’epidemia zombie. Se la diffusione ed il contagio della malattia è una tematica presente fin dalla letteratura antica (nel I libro dell’Iliade Apollo scatena, scoccando le sue frecce, una terribile pestilenza nell’accampamento greco per punire Agamennone della mancata restituzione della figlia a Crise e Sofocle, nell’Edipo re, narra di un morbo che devasta Tebe), ciò che rende il gioco avvincente è il rapporto tra i sopravvissuti e l’assenza di alcuna morale in un mondo ormai dominato dalla violenza e dove i protagonisti vivono nella condizione di profughi, in una drammatica forma di nomadismo, coperti da maschere anti-gas per proteggersi dalle spore.
Dopotutto, l’esaltazione del progresso scientifico e tecnologico propria del positivismo viene narrata in maniera negativa già da Wells, che contrasta la fiducia nel massimo sviluppo dell’umanità con la paura di una regressione evolutiva e culturale: dopo aver raggiunto i limiti evolutivi, una specie non può far altro che avviare un processo involutivo. La capacità simbolica dell’uomo si trasforma, dunque, in mera adesione ai bisogni naturali.
Il racconto distopico a cui The Last of Us: Part II aderisce è una forma di tragedia, e lo è al massimo grado, in quanto viene sacrificato l’uomo come specie. Ciò è reso ancora più drammatico dalla cancellazione del tratto tragico fondamentale, l’eroe, ormai privato del futuro. Joel ed Ellie non rappresentano un’eccezione: se Joel, padre surrogato, fornisce supporto materiale, Ellie non rappresenta l’umanità e la speranza in un mondo di-sperato, né è portatrice di messaggi di pace. Nessuna competenza dei salvati si trasforma nell’arte di salvare.
Il covid-19 ci ha tristemente abituati a scorgere l’ingombrante presenza distopica nella nostra realtà: quasi come all’interno del videogioco, in questi mesi abbiamo assistito al sistema di sorveglianza messo in atto per cercare di contrastare il virus ed all’utilizzo da parte di svariate testate giornalistiche di termini come “zona rossa”, “quarantena”; parole che si ricollegano, nel nostro immaginario, ad un sistema di controllo pervasivo e dittatoriale.
Nell’universo videoludico gli scontri con gli zombie rappresentato i momenti più rassicuranti di questo mondo alla fine della decadenza: sono gli uomini il vero nemico. Lo spettatore, durante il viaggio, acquista familiarità con le varie fazioni che si contrappongono sullo schermo: se nel primo episodio siamo entrati in contatto con la città di Boston e la divisione militare FEDRA (Federal Disaster Response Agency), nel territorio di Seattle si contrappongono due schieramenti: il WLF, Washington Liberation Front, i cui membri si fanno chiamare ‘lupi’, ed i serafiti, denominati ‘iene’ dalle milizie del WLF.
A queste due organizzazioni appartengono gli altri personaggi chiave del videogioco: Abby e Lev. Se la prima è un soldato ed appartiene alla milizia paramilitare del WLF, Lev è seguace del culto professato dai serafiti, nato a seguito dell’outbreak day e guidato da una donna misteriosa, la Grande Madre, che riteneva l’infezione cerebrale da cordyceps una punizione divina causata dalla natura peccaminosa dell’uomo e dal suo rapporto simbiotico con la tecnologia.
Se per Benjamin “il capitalismo fu un fenomeno naturale con cui un sonno nuovo e dei nuovi sogni avvolsero l’Europa, dando il via a una riattivazione delle forze mitiche”, per i serafiti il mondo è ingannevole, dominato dalla finta idea di progresso che vede nell’hic et nunc il massimo valore a cui aspirare. Animati da un violento fanatismo religioso, i serafiti testimoniano il tramonto della civiltà nonostante i risultati ottenuti tramite la sperimentazione scientifica e conoscenze avanzate in campo tecnologico. Il giocatore entra in contatto con il personaggio di Lev proprio durante uno dei momenti più drammatici: mentre la sorella sta per essere impiccata, per poi essere sventrata viva. Solo così facendo è possibile mondare i nemici dai peccati commessi.
Mentre gli uomini si affannano, combattono e muoiono, uccisi sia dal desiderio di vendetta, sia dalla frenesia del sangue, una delle caratteristiche principali del gioco è l’attenzione estrema alla grafica che si ripercuote sulle animazioni facciali dei personaggi e sull’attenzione all’elemento naturale, fino alla rappresentazione minuta dell’esile filo d’erba scosso dal vento, o la pioggia che riflette i bagliori delle insegne della città.
Già Keith Paciello, lead animator di Naughty Dog, aveva spiegato, in un post sul blog di PlayStation, le caratteristiche dell’Emotional Systematic Facial Animation System, che permette ai personaggi di esprimere emozioni in game, utilizzando circa 20 stati emozionali per ognuno dei 25 personaggi chiave sullo schermo.
Anche la natura è vera e propria protagonista: ciò è ben visibile dai primi minuti di gioco, quando, a cavallo, Joel e Tommy, fratello del protagonista, ritornano a Jackson, una comunità di superstiti in Wyoming. Mentre la cittadina si intravede sullo sfondo, il sole abbaglia il protagonista e risulta istintivo abbandonare il joystick per proteggersi la vista con la mano alzata. Ogni dettaglio della comunità ci fa sentire al sicuro: le luci, il calore degli interni, gli edifici in legno, i vari personaggi. Jackson rimarrà l’unica città pulita e priva di infetti, mentre gli altri spazi sono ostili e pericolosi.
Già nel primo capitolo le città di Austin, Boston, and Pittsburgh erano identificate tramite il panico e la violenza di una civiltà che non esiste più. La natura è incurante delle fragilità umane ed appare in tutta la sua sublime magnificenza: piogge violente accompagnano il giocatore durante l’esplorazione mentre attraversa fiumi, manovra barche, combatte contro le onde di un oceano in tempesta.
La colonna sonora amplifica la sensazione di straniamento: il compositore argentino Gustavo Santaolalla, (due volte premio Oscar per la migliore colonna sonora originale, nel 2006 per I segreti di Brokeback Mountain e nel 2007 per Babel) rende l’esperienza di gioco ancora più godibile. Il viaggio di Ellie, iniziato con una semplice pattuglia nelle zone vicine a Jackson, avviene durante l’inverno, non l’estate.
Il simbolismo di questa stagione, tra tempeste di neve e case abbondonate, evolve insieme al suo personaggio e ci ricorda la lotta disperata che la protagonista ha dovuto affrontare nel primo episodio contro David, a Silver Lake. Seattle è stata studiata nei minimi dettagli, dalla vegetazione alle planimetrie dei palazzi. I muri diroccati, l’erba che rompe l’asfalto: il giocatore può decidere se entrare nelle case, visitarle o passare oltre. Durante il tragitto sono visibili brandelli di poster, confezioni di cibo aperte, lettere di chi ha tentato di sopravvivere e non ce l’ha fatta.
Tuttavia, la natura non è solo abbandono e riappropriazione degli spazi urbani: segue la disperata violenza umana, il fuoco bruciante della vendetta. Le fiamme non si manifestano solo nel caos anarchico delle città, nella velocità bruciante mediante la quale il virus si diffonde: il fuoco rappresenta anche purificazione e l’inizio di un nuovo ordine, come già individuato da Bachelard: “Le feu est l’ultravivant. Quand on veut que tout change, on appelle le feu, il purifie tout”.
Ellie è pervasa dalla stessa forza distruttrice del fuoco. Protagonista indiscussa del capitolo, vota la sua esistenza alla vendetta dopo aver assistito inerme all’uccisione di Joel ad opera di Abby, figlia del dottore – scopriremo in seguito – che voleva operare la giovane ragazza per ricavarne un vaccino. La pratica della vendetta è attestata in tutte le civiltà conosciute. Non esiste comportamento altrettanto ben documentato ed oggetto di narrazione in ogni ambito: potente come movente individuale, è decisiva sulla scena sociale, dove costituisce il catalizzatore delle più distruttive azioni di massa. A proposito dell’ira, intesa come desiderio di ricambiare il male, Seneca scriveva: “gli altri vizi prendono gli individui, questa è l’unica passione, invece, che talvolta può prendere tutta la società […]. Spesso ci si è lasciati prendere dall’ira tutti compatti: uomini e donne, vecchi e bambini, nobili e volgo, tutti concordi”.
Il gioco dà la possibilità di interpretare sia il personaggio di Ellie, sia quello di Abby e, accompagnando entrambe lungo il loro percorso di sangue, dopo aver empatizzato con le loro scelte, è lecito domandarsi se esista una violenza buona ed una cattiva, se in alcuni casi sia lecito regolare i conti da soli, poiché la giustizia statalizzata è ormai svanita. Della vendetta, nella filosofia occidentale, alcuni autori (Platone, Seneca, Hobbes) la condannano senz’appello, come passione sregolata e irragionevole, altri (Aristotele, Kant) la considerano una forma di giustizia, ma solo a patto che essa sia esercitata entro confini stabiliti.
In The Last of Us: Part II non esiste alcuna filosofia a cui aggrapparsi: prevale l’umano in tutte le sue forme. Fallace. Debole. Rancoroso. Ellie ed Abby non riescono ad abbandonare il scivoloso percorso che hanno intrapreso: solo quando realizzano di aver ormai perso tutto ciò a cui tenevano di più, capiscono che non è necessario proseguire oltre (il loro ultimo combattimento a Santa Barbara è, forse, il momento di gioco più intenso in assoluto). Non ha senso provare ad identificarsi in un personaggio rispetto ad un altro: la violenza è cupa e sempre più distruttiva. Il videogioco non si limita ad illustrare una storia: vuole che lo spettatore partecipi e la viva in prima persona.
Per questo motivo, il finale rappresenta la conclusione più adeguata di questo viaggio post-apocalittico: la protagonista ritorna alla fattoria in cui abitava con Dina, sua compagna, ma la trova vuota. Una Ringkomposition che culmina con Ellie provata sia nel fisico che nella mente e, come all’inizio di The Last of Us: Part I, di nuovo sola.
Cristiana Roffi