“Ohio” | Le piaghe dell’America in un romanzo di Stephen Markley
Quanta America che c’è dentro “Ohio” di Stephen Markley (Einaudi). Così tanta da sembrare un reportage involontario. Un documentario abilmente montato con la maestria narrativa di un grande romanzo sulla perdita dell’innocenza, calato in (o estratto da?) un microcosmo dell’Ohio.
Quanta America che c’è dentro “Ohio” di Stephen Markley (Einaudi). Così tanta da sembrare un reportage involontario. Un documentario abilmente montato con la maestria narrativa di un grande romanzo sulla perdita dell’innocenza, calato in (o estratto da?) un microcosmo dell’Ohio.
Uno schiaffo di realismo.
“Per me la scrittura è questo: rubare dalla realtà per fabbricare la verità”
(Stephen Markley, Repubblica – Maggio 2020)
Nella trama da quasi giallo, si srotola man mano la verità di più di un mistero. C’è quello che stritola, unisce, disarma, blocca e tratteggia le anime dei protagonisti. Poi ci sono quelli, paralleli e in concorso di colpa, che stanno portando a morte lenta, ma spesso certa, una fetta della società americana contemporanea.
Siamo a New Canaan, Ohio. New Canaan è una città immaginaria nel nome, ma drammaticamente reale nei fatti che trafiggono la sua quotidianità. È quel luogo – uno di quei tanti luoghi – che, per chi ha lasciato la propria terra per lavoro o per scelte di vita, occupa “uno spazio psicologico così immane da dimenticare che era un posto come tanti, e che la vita lì andava avanti come ovunque”.
Anno 2013. Le cellule cancerose che, più o meno asintomaticamente si sono sparse viaggiando lungo le nere vene di asfalto dell’America, sono ormai sveglie. I tumori degli States sono in metastasi.
In una notte d’estate di quell’anno i quattro protagonisti, da tempo lontani dalla loro città natale, si ritrovano involontariamente e contemporaneamente lì. Non è un raduno né, tantomeno, una rimpatriata. È una serie di incontri casuali e mai collettivi che si svolgono nell’arco di una notte. Una notte che è come un filo al quale sono appesi ad asciugare pezzi di carta fotografica che man mano rivelano pagine di passato. C’è un segreto – più di uno, in realtà – che ha segnato le vite di tutti e si è infilato nelle loro anime.
Le anime di Bill, attivista più afferrabile delle verità che cerca di combattere e scoprire; di Stacey, dottoranda segnata più o meno inconsapevolmente dal giudizio morale che condanna l’omosessualità in certi (tanti, troppi) microcosmi. Di Tina, bella ma distrutta dentro da una tempesta umana che l’ha investita portando via con sé ogni speranza di redenzione; di Dan, reduce di guerra, quella dell’Iraq, cosparso di cicatrici in superficie e nelle viscere dell’emozione.
“Difficile dire dove finisca questa storia o come sia cominciata, perché una delle cose che alla fine imparerete è che il concetto di linearità non esiste. Esiste solo questo sogno collettivo scatenato, incasinato, incendiario in cui nasciamo, viaggiamo o moriamo tutti”
Stephen Markley, autore under 40 figlio dell’Iowa Writer’s Workshop al suo primo romanzo, avvisa il lettore così. E rimane coerente con questo avviso per tutte le pagine a seguire: la struttura narrativa quadripartita, una per personaggio, si scioglie e si intreccia, costellando il racconto di punti di tangenza. Ogni personaggio ha la sua voce, pur essendo il tutto raccontato in terza persona.
A colpire sono poi le descrizioni, forse uno dei punti stilisticamente più belli di questo lavoro. Descrizioni che tradiscono un rapporto di studio, osservazione e ammirazione per il connubio tra paesaggio antropico e paesaggio naturale.
C’è addirittura un influsso quasi romantico, nel senso ottocentesco del termine, nel rapporto tra tempo atmosferico e fatti della narrazione. È un temporale violento, ad esempio, ad accompagnare uno dei momenti di verità più crudi, “uno di quei nubifragi, pesanti, travolgenti, che la città vedeva sempre più spesso negli ultimi tempi, scoppi d’ira meteorologica più simili a tifoni in embrione”.
E proprio quel rapporto tra uomo e paesaggio si rivela anche un escamotage narrativo fondamentale.
“Entrando a New Canaan da ovest non c’è nessun cartello ad accoglierti. Ci sono solo coltivazioni che cedono il passo ad agglomerati di case, finché non incontri il primo semaforo sulla statale 229. La segui fino in centro, passando davanti a un mega silo di cereali, all’acciaieria abbandonata ormai da trent’anni, alla vecchia scuola media chiusa dal ’96 e imprigionata dietro una siepe di filo spinato”
Queste “immagini di copertura”, quelle del paesaggio che accompagnano la storia, ne raccontano una parallela. Quella della Rust Belt. Un elenco di luoghi, questo sopracitato, apparentemente innocuo, ma che in realtà non è che una bacheca di appunti di storia contemporanea. I cereali, croce e delizia dell’economia americana e della propaganda elettorale. L’acciaieria abbandonata, con la morte industriale dalle cui ceneri è sorto il fuoco che ha regalato al trumpismo il miglio in più che mancava per avvicinarsi alle porte della Casa Bianca. La crisi demografica, figlia e compagna di tutte queste storie e molte altre.
In un’intervista a Repubblica l’autore si è smarcato dal percorso che l’intuizione porterebbe a ritenere ovvio: partire dalle ferite del proprio Paese e delineare dei personaggi che le possano raccontare: “Non è che mi sono detto a tavolino: adesso scrivo un romanzo sulla working class bianca e sulla crisi degli oppiacei. Sarebbe stato noioso, didattico. Ho cominciato a immaginare i personaggi e poco a poco il loro mondo si è chiarito”.
Fatto sta che il risultato è in ogni caso quello di un romanzo con personaggi fortemente e magistralmente caratterizzati tanto quanto lo è il mondo che vivono e che subiscono. Le crisi che racconta Markley sono quelle dei suoi protagonisti: variabili note che influenzano il risultato dei loro coefficienti biografici.
Insomma, da qualsiasi punto il suo autore sia partito, è in molte delle pieghe oscure dell’America che “Ohio” ci trascina.
“La mamma di Jess lavora da un dentista. Dice che la gente va a farsi cavare i denti perché così gli prescrivono l’Oxy. E se non riescono a trovare quello comprano l’eroina. Robaccia da negri che poi non te ne liberi più”
Eccola, ad esempio, la sequela di storie e di umanità trafitte dalla crisi degli oppiacei.
“Le prime me le hanno prescritte a sedici anni, quando mi sono slogato la spalla in seconda squadra. In pratica ho continuato ad impasticcarmi fino a pochi anni fa (…). Tante volte avrei voluto mandarne giù un flacone e farla finita”.
Farmaci che vengono prescritti con estrema facilità per alleviare il dolore, spesso per aggirare le falle di un sistema sanitario che non fa sconti di pena, e che nella maggior parte dei casi rendono le persone dipendenti fino a farle cadere nel giro più economico e spesso mortale dell’eroina.
Una crisi, questa, che sta colpendo duramente gli Stati Uniti, soprattutto in zone come il West Virginia e l’Ohio. Ne ha parlato molto bene anche Francesco Costa nel suo ultimo libro “Questa è l’America”, sostenendo in maniera assai condivisibile che non si può parlare di America – e di politica in America – oggi senza tenere presente questa strage rimasta a lungo silenziosa.
Spiega Costa: “Dal 1999 al 2018 quasi 800.000 persone negli Stati Uniti sono morte per overdose; la grandissima parte per overdose da oppiacei. Soltanto nel 2017 i morti sono stati 70.237, il doppio di dieci anni prima: circa centonovanta ogni giorno, otto per ogni ora, una ogni sette minuti. Dieci volte il numero totale dei soldati caduti in Iraq e in Afghanistan dal 2001 a oggi, più di tutti i soldati morti in Vietnam, Iraq e Afghanistan messi insieme”.
In Ohio, ad esempio, il numero di morti per overdose nel 2019 è cresciuto del 14% rispetto al 2018. Il 91% è legato ad oppiacei.
La strage non è finita. Anzi. Continua ad avvitarsi su se stessa, sulla storia contemporanea americana, sui tentativi di comprenderla che spesso falliscono, sugli approcci risolutivi che non la capiscono del tutto, sugli interrogativi che restano senza risposta, sugli interessi che non cessano di auto alimentarsi.
E, ancora, in “Ohio” c’è la guerra. Ci sono le guerre. Quelle esterne, perpetrate dall’11 settembre in poi. E quelle interne: il terrorismo revanscista – se così possiamo definirlo – scaturito dall’odio verso un’intera categoria religiosa.
Markley rende benissimo nella sua scrittura l’esperienza dei combattenti. Della nostalgia che si prova per casa mentre si è al fronte. Della capacità di sviluppare un senso di casa anche lì, tra bombe che piovono o che covano nascoste sotto passi incerti e sentieri polverosi.
“Casa è una sensazione vagante, non è un luogo, e per una grossa fetta della sua vita casa sarebbe stata la sensazione di quel proiettile nel petto”.
La trama con i suoi personaggi. L’attualità che la travolge e alimenta le loro gesta (quando non viceversa). La caratterizzazione psicologica e umana dei protagonisti. Insomma: è un viaggio bello e necessario, quello tra le pagine di “Ohio”.
Ora struggente, ora rivelatore. Certamente crudo e intenso.
È un trattato di adolescenza contemporanea nella periferia degli States.
È un romanzo del quale senti di fidarti perché la senti tutta quanta l’America che contiene. Quella meno nota. Quella della maggioranza che ci è forse troppo spesso sfuggita per sorprenderci quando meno avremmo voluto.
[bonus quote]
“Il cielo di dove sei nato non lo riconosci solo dal modo in cui si annuvola o in cui brillano le stelle di notte. Il cielo di casa tua si comporta come quando, da paracadutista, tiri la corda e l’aria ti riafferra. Puoi aver girato il mondo e visto tramonti migliori, albe migliori, temporali migliori, ma appena scorgi all’orizzonte i campi, i boschi, le alture e i fiumi che ricordi, ti prende la commozione. La corda del paracadute ti strattona in alto”.