Bob Dylan, Murder Most Foul | Un giorno buio a Dallas
Se c’è un brano che ha segnato il mio modo di ascoltare musica, quel brano è Like a Rolling Stone di Bob Dylan.
È così per milioni di noi, credo, e dopotutto è uno di quei pezzi cui sono stati dedicati libri interi (Greil Marcus ne ha raccontato l’intera, travagliata genesi in duecento pagine). Non tanto e non solo nella quadratissima versione di studio che ascoltate su Highway 61 Revisited – una fanfara talmente roboante da farti dimenticare che in quei sei minuti ci sono giusto cinque accordi – quanto piuttosto nelle registrazioni live del drammatico tour del 1965.
Nonostante le contestazioni di un pubblico che ancora voleva Blowin’ in the Wind e The Times They Are A-Changin’, chitarre acustiche e testi da appuntarsi al petto come dichiarazioni di appartenenza al movimento-delle-giuste-cause (che restano giuste, per carità, ma le coccarde non sono attivismo), in quelle esecuzioni gioiosamente instabili e altamente infiammabili sembra di scorgere un ghigno compiaciuto sul volto di Dylan.
Il ghigno di chi ha trovato la propria strada e ha deciso di buttarcisi a capofitto (e alla faccia di chiunque altro) nonostante fosse proprio la meno battuta.
Se devo essere completamente sincero, però, se un alieno dovesse chiedermi da dove partire per iniziare a conoscere Dylan, gli direi di prendersi undici minuti e partire dal fondo di quella trilogia, proprio dall’ultimo pezzo di Blonde On Blonde: Sad Eyed Lady of the Lowlands, la prima canzone non-letterale su cui ricordo di aver pianto da ragazzo. Sembra un sogno, forse lo è davvero, e tu te ne stai lì sdraiato con le mani dietro la testa mentre provi a capire cosa sia colpirti così tanto: non è proprio quello, “lo scherzo che fa la notte quando vorresti solo startene tranquillo”?
Per qualcuno, Dylan come figura culturale centrale finisce proprio lì, nel 1966, con quel pezzo. Il suo ritiro dalle scene a causa del famigerato incidente motociclistico, e il ritorno nei panni di un rassicurante cantante country sono il simbolo di un artista che ha perso per sempre la capacità – e pure la voglia – di dire qualcosa di fondamentale e trasformativo sulla realtà circostante, per limitarsi a fare semplici dischi. Più o meno riusciti, più o meno elettrici, più o meno cristiani.
Da un certo punto di vista comprendo quel ragionamento: la musica di Dylan non ha mai più guidato il gruppo, anticipato i tempi e descritto in diretta cambiamenti sociali e culturali come in quel triennio magico. Eppure, a partire da lì, ha saputo aggiungere innumerevoli nuove stanze al palazzo di una visione artistica ubriacante – per non perdere i riferimenti e il senso delle proporzioni, ricordo che fra due anni quella visione ne compirà sessanta; tanti, allora, ne saranno passati dal primo album.
Imparagonabile a qualunque altro musicista del Novecento – e pure del nuovo millennio – Bob Dylan non solo si è reinventato a ogni uscita, ma è come se, essendo lui e la sua arte un’infinità di cose diverse e tutte temporanee, ogni suo nuovo lavoro fosse indipendente da quanto fatto in precedenza.
Di più: è come se ogni nuovo Dylan rimuovesse se stesso dalle mappe della storia – o meglio l’idea di sé che la sua opera ha contribuito a creare fino a quel momento – mettendoci invece un nuovo personaggio, mostrando sia la forza “qui e ora” della sua ispirazione, sia quanto quasi tutte le sue incarnazioni siano state fondamentali per decenni per forgiare tanti dei suoni e generi che amiamo: l’intera impalcatura della canzone occidentale degli ultimi sessant’anni è semplicemente inimmaginabile senza l’immaginazione di Dylan. Puoi togliere praticamente chiunque altro, ma lui no.
E nemmeno ora: il 27 marzo scorso, in pieno lockdown, Bob Dylan ha presentato al mondo Murder Most Foul, diciassette minuti di elegia che prendono le mosse da una citazione dell’Amleto di Shakespeare per raccontare dall’assassinio di John Fitzgerald Kennedy.
Un’elegia oceanica, che ha lasciato tutti interdetti.
“Ci piace pensare che il mondo sia un posto sicuro. Sicuro almeno nel senso che possiamo conoscerlo. L’assassinio di Kennedy è invece un saggio sull’insicurezza del mondo. Se un uomo così potente, così giovane, così ricco, così di successo, può essere spazzato via dalla faccia della terra in un istante, cosa dice tutto questo al resto di noi?” (Errol Morris, da un’intervista dello Smithsonian)
Musicalmente, Murder Most Foul è una dolcezza folk free-form costruita intorno al lacrimare di pianoforte, viola e contrabbasso, con un drumming pittorico che interviene a commentare con piatti e spazzole i momenti più toccanti del brano – qualcosa che mi viene da accostare, per motivi che non mi sono ancora chiarito, allo sciabordio delle acque mimato da Jim White in Ocean Songs. Su questo vago canovaccio – in cui i musicisti sembrano seguire a occhi chiusi e con disarmante naturalezza il fluttuare liberamente associativo delle strofe di Dylan – la voce del cantante si muove leggera e commossa, sonnambula in una casa enorme e dalle mille stanze; e ognuna di quelle stanze nasconde a sua volta mille fatti, mille teorie, mille macchinazioni, mille visioni, mille citazioni.
Ce ne sono così tante, di citazioni, che in effetti Murder Most Foul fa pensare che Dylan si stia limitando a parlare per bocca di altri in uno sterile namedropping: ma il punto, qui e come sempre, è la maniera in cui l’autore srotola riferimenti culturali assorbiti in una vita in un arazzo di proporzioni inaudite anche per uno che non ha mai temuto di andare in doppia cifra con i minutaggi – Murder Most Foul è un nuovo record per il nostro, che in precedenza si era spinto fino ai 16’31” di Highlands, ormai tanti anni fa.
Le parole del documentarista Errol Morris, citate qui sopra, spiegano bene il modo in cui il musicista di Duluth ha scelto di rappresentare l’orrore della morte violenta di Kennedy, un dolore mai sanato e a tutt’oggi incomprensibile, raccontato per accumulo di immagini per provare almeno a superare lo shock di un evento cruciale di cui tutta una generazione, per prima nella storia, ha avuto testimonianza visiva diretta e approfondita (“and so quickly, so quick, by surprise / right there in front of everyone’s eyes / greatest magic trick ever under the sun”).
Un evento dalla copertura mediatica superata solo quarant’anni dopo:
“gli attacchi terroristici a New York e al Pentagono sono diventati davvero la storia di una vita in televisione, superando persino l’assassinio del presidente John F. Kennedy, che all’epoca nessuna rete aveva coperto per più di 70 ore consecutive. Da ieri mattina, CBS, NBC e ABC, le tre reti attive al momento dell’assassinio e del funerale di Kennedy, erano state in onda continuamente, senza interruzioni commerciali, per 72 ore” (Bill Carter e Jim Reutenberg, per il New York Times)
Un dolore narrato attraverso dettagli geografici e visivi che sono ormai patrimonio collettivo: la Lincoln Continental nera in cui viaggiava Kennedy; il Triple Underpass in cui tre arterie del traffico di Dallas confluivano in Dealey Plaza, con gioco di parole cinematografico annesso (“living in a nightmare on Elm Street”); la famosa collinetta, la Grassy Knoll; il Parkland Hospital, dove Kennedy fu dichiarato morto.
Un dolore narrato attraverso parole rumorosamente grafiche: la violenza di un gesto crudele anche simbolico preparato da tempo (“was a matter of timing and the timing was right”); la testa che esplode e la moglie che si arrampica sul retro dell’auto apparentemente per recuperare qualcosa che ne è uscito, per cercare di rimetterlo dove stava prima; il corpo del presidente che collassa senza vita su quello di Jackie che sta proprio al suo fianco (e ne insanguina l’abito che si vede nella storica fotografia del giuramento di Lyndon B. Johnson di quel pomeriggio stesso, sull’Air Force One).
Come una versione sonora dei ventisei secondi più importanti della storia del cinema, il cortometraggio in 8mm a colori di Abraham Zapruder citato nella terza strofa (“seen it thirty-three times, maybe more / it’s vile and deceitful, it’s cruel and it’s mean / ugliest thing that you have ever seen”) – e in particolare il fotogramma 313, quello del colpo fatale.
Un dolore narrato attraverso una sequenza apparentemente interminabile – e felliniana, nel senso di 8½ – di film, ma soprattutto canzoni, musicisti e compositori: dai Beatles a Joni Mitchell, da Robert Johnson agli Who, da Nina Simone a Warren Zevon, dagli Eagles ai Queen, da Thelonius Monk e Charlie Parker a Miles Davis ed Elvis Presley (NPR ne ha contate settantaquattro e le ha raccolte in questa playlist); e Dylan, pienamente consapevole del proprio ruolo nella storia, pone Murder Most Foul a suggello di questa lista vertiginosa.
Un poema in musica che alterna il punto di vista della narrazione e che sembra un testamento all’evento da cui è dipeso tutto quello che in seguito è venuto sia per l’autore – che nel 1963 aveva appena iniziato a intravedere il successo di massa e subito si vedeva strappare uno dei simboli che avevano reso possibile quel sogno – sia per la sua e le successive generazioni (“I said the soul of a nation been torn away / and it’s beginning to go into a slow decay / and it’s thirty-six hours past Judgement Day”).
Sono ancora le parole di Errol Morris, nell’intervista curata dallo Smithsonian, le più adatte a descriverne il senso di perdita incalcolabile, inconsolabile:
riporta a una versione più semplice dell’America. Fu davvero la fine degli anni Cinquanta. La fine di un certo tipo di innocenza cui avevamo creduto. Era sembrato che la Seconda Guerra Mondiale potesse fornire una nozione di buono e cattivo che potessimo abbracciare completamente. Avremmo potuto costruire un futuro post-bellico su quelle basi. E questo evento pose fine a tutto. È incredibilmente triste, ancora oggi, ripensarci. E ha prodotto questa guerra epistemica fra persone che combattono per la realtà attraverso queste immagini, mentre cercano di riprendere il controllo dal caos
Murder Most Foul è stata inserita nel nuovo lavoro di inediti di Dylan, Rough and Rowdy Ways, ma è allegata in un disco a parte che non contiene altre tracce.
Il retrocopertina è una foto di JFK: considerato che l’autore ha 79 anni e il suo ultimo album di composizioni autografe risaliva al 2012, questo potrebbe essere davvero il modo che Bob Dylan ha scelto per congedarsi da noi. Chiudendo – almeno per quanto lo riguarda – con uno straordinario capolavoro una parentesi di smarrimento collettivo che mi piace ricordare aperta proprio da un artista amico, Roger McGuinn, la notte della tragedia. Lo sgomento era già lo stesso:
he was a friend of mine
he was a friend of mine
his killing had no purpose
no reason, or rhyme
oh, he was a friend of mine
he was in Dallas town
he was in Dallas town
from a sixth floor window
a gunner shot him down
oh, he died in Dallas town
he never knew my name
he never knew my name
though I never met him
I knew him just the same
oh, he was a friend of mine
leader of a nation for such a precious time
oh, he was a friend of mine
Dovete sapere che questo è solo un piccolo estratto/sunto di un testo molto più lungo che ho pubblicato altrove, in un posto che non conosce nessuno, un mesetto fa (se lo volete leggere per intero, sta qui). Un pezzo che parla di Murder Most Foul, di Rough and Rowdy Ways e di Dylan in generale, e che è nato in qualche pomeriggio passato nei parchi di Bologna con una penna, un diario, un abbonamento a Spotify e un paio di cuffie.
L’ultima volta, quando stavo proprio per chiuderlo, ho raccolto le mie cose e mi sono avviato verso casa, chiacchierando per qualche minuto al telefono con mia madre. Si parlava del più e del meno, in attesa che mi trovassi qualcosa da mangiare per cena; risolto il problema, però, c’era ancora una mezz’ora di cammino per arrivare a destinazione, e io sentivo ancora un bisogno insopprimibile di aria aperta e parole.
Così l’ho richiamata, e tutto quello di cui volevo parlare era quanto fosse stato difficile scrivere di Murder Most Foul, riportando alla mente fatti tragici di cui perfino io, da questa distanza, sento il peso quotidianamente, e generando peraltro vivida commozione in lei, che il 22/11/1963 aveva solo otto anni e mezzo e ricorda l’assassinio di JFK e i come il primo, vero evento mediatico cui abbia assistito, giusto qualche anno prima dei whiteys on the moon.
Le ho confessato di non essere riuscito nemmeno io a trattenere le lacrime, mentre le parole di Dylan scorrevano copiose in cuffia e le mie finivano sulla carta, e suonavo sorpreso all’idea che un uomo di ottant’anni mi stesse raccontando in modo totalmente indiretto un evento – che teoricamente ha cambiato la vita a lui più che a me – e che a un certo punto mi avesse così tanto avvolto nelle spire del proprio sentire da non farmi percepire più alcuna distanza fra i nudi fatti di quel giorno a Dallas e i versi del brano, come se mi fosse stato chiaro che da quel momento in poi sarebbero state quelle le uniche parole capaci di raccontare l’assassinio di Kennedy, e, per esteso, mezzo secolo di storia americana.
È questo il dono più grande che possa fare un artista, io credo: sviluppare un pensiero così alto e una visione così ambiziosa da farti provare esattamente l’emozione che sta mettendo in scena. Ogni volta che Dylan apre bocca, anche oggi, siamo catapultati nel mezzo di un’esperienza caotica e ridicola, violenta e inspiegabile, e poi, subito dopo, di una bellezza estatica: è la vita, né più né meno, intrappolata per un attimo e per sempre nelle canzoni più belle che potrete mai ascoltare.
(dedicato a Mattia, che sa perché)