Cosa possiamo imparare da Leonardo da Vinci | Walter Isaacson
Ho riflettuto a lungo se scrivere o meno le mie riflessioni sulla biografia di Leonardo da Vinci, edita da Walter Isaacson, firma americana molto nota anche per le precedenti biografie di celebri personaggi, da Benjamin Franklin a Steve Jobs. La verità è che di fronte a Leonardo ci si sente infinitamente piccoli e ogni considerazione in merito risulta profana, a tratti perfino arrogante.
Ecco che invece è Isaacson stesso a offrirmi la chiave di lettura per potermi sentire libera di parlarne: “Leonardo era un genio umano, forgiato dalla sua volontà e dalla sua ambizione. (…) Il suo genio era del tipo che possiamo comprendere e da cui possiamo perfino trarre insegnamenti. Era basato su abilità che possiamo aspirare a coltivare noi stessi, come la curiosità e l’osservazione attenta.”
Per cominciare, Leonardo era un diverso. “Diverso da chi?” verrebbe da chiedersi. Sicuramente dalla maggioranza dell’epoca. Leonardo era figlio illegittimo, in quanto nato fuori dal matrimonio, era apertamente omosessuale (per quanto si potesse esserlo apertamente nel XV secolo, reato di sodomia a parte, ovvero praticamente quasi più di oggi in Italia, basti pensare a Donatello e Michelangelo), era mancino, scriveva persino sulle pagine da destra a sinistra, era un artista e, di fondo, per certi versi sarebbe sempre stato un estraneo al suo ambiente. Nondimeno, tutto ciò non sembrò rappresentare un disagio per Leonardo che, al contrario, seppe fare delle sue peculiarità un’arma ineguagliabile.
Innanzitutto, la nascita nel 1452 al di fuori del matrimonio gli consentì di evitare una predestinata carriera da notaio, in un’epoca fortunata, anzi, “un’età dell’oro per i bastardi” come sostiene Jacob Burckhardt (non pensavo che l’avrei MAI incontrato di nuovo dopo 15 anni – quindi “grazie” al mio prof di italiano del liceo, ndr). Effettivamente, l’illegittimità all’epoca era una sorta di permesso a poter coltivare la propria creatività, non era motivo di pubblico ludibrio. Isaacson ci ricorda che anche Petrarca, Boccaccio, Filippo Lippi e Leon Battista Alberti, ad esempio, erano figli illegittimi. Chissà cosa ne sarebbe stato delle loro carriere se avessero dovuto tutti quanti seguire le orme paterne.
Che dire poi della Firenze del Quattrocento?
Non vi erano altri luoghi al tempo – e forse ce ne furono ben pochi anche successivamente – così stimolanti per la creatività, per la mescolanza delle arti e così floridi economicamente per poterle coltivare e sostenere. Quando nel 1469 Leonardo si spostò da Vinci a Firenze, salì al potere Lorenzo de’ Medici (“il Magnifico”), destinato a passare alla storia come uno dei più grandi mecenati e protettori di artisti senza tempo come Botticelli e Michelangelo. Del resto, come dice il fisico Massimo Temporelli, “non sarebbe esistito Leonardo senza il Rinascimento”. A proposito, consiglio fortemente l’ascolto dell’episodio dedicato a Leonardo nel suo podcast Fottuti geni, che mi ha fatto compagnia durante tutto il lockdown.
L’apprendistato nella bottega del Verrocchio gli fornì le basi per un’istruzione eclettica, che copriva la meccanica, le tecniche di disegno e gli effetti della luce sui materiali, fino a discussioni collegiali sull’anatomia, sulla musica, sulla matematica e sulla filosofia. Gli artigiani di queste botteghe non avevano studiato il latino, destinato a un’élite culturale ben più ristretta. Nemmeno Leonardo lo padroneggiò mai a pieno, così come ebbe sempre difficoltà in matematica (ah – non vi sentite già meglio?).
Eppure Leonardo non smise mai di studiare per tutta la vita, era inesorabilmente attratto dai meccanismi, dagli ingranaggi e dalle strane regole della fisica che da una parte animavano i macchinari d’umana invenzione e dall’altra governavano, e governano tuttora, le leggi della Natura. A questo proposito Isaacson ci invita a soffermarci sui vortici e i mulinelli dati dallo scorrere dell’acqua alle caviglie di Gesù nel Battesimo di Cristo (1475-1478), probabilmente il culmine della collaborazione vinciana con il Verrocchio.
Ecco allora il nostro uomo d’ingegno che si ritira ad osservare per ore il volo degli uccelli, ne indaga le dinamiche, ne disegna i moti e prova a indovinarne la biologia, fino a sfidare il futuro ipotizzando congegni con ali meccaniche che mai presero il volo. Per Leonardo, la natura fu per tutta la vita la principale Maestra.
Mi sorge il dubbio che se oggi si affacciasse alla fantasiosa mente di Leonardo qualche psichiatra esperto potrebbe scorgerci un principio di sindrome da deficit di attenzione, chissà. Quel che è certo è che attraverso la lettura dei suoi fittissimi taccuini, risorsa dall’inestimabile valore giunta fino a noi almeno per 7200 pagine, si apprende l’incessante lavoro della sua intelligenza febbrile, i suoi disegni ossessivamente precisi, i suoi progetti incompiuti, i suoi elenchi infiniti di cose da fare, i suoi conti puntuali, i suoi misteri. E, di nuovo, l’osservazione maniacale. Non c’era ambito in cui Leonardo non si ponesse domande e vi cercasse affannosamente le risposte. Il fascino dei dettagli e della loro essenza.
Leonardo fu probabilmente il primo artista a rappresentare il paesaggio fine a se stesso, la natura in quanto natura, mediante un realismo geologico sorprendente per l’epoca, come la vegetazione presente nella Vergine delle rocce (1483-1486). Di contro, Leonardo lasciò incompiuti centinaia di progetti: preferiva l’ideazione all’esecuzione, era terribilmente affascinato dal futuro per potersi concentrare sul presente. E fu proprio per placare questa fame di realizzazione che nel 1482 lasciò Firenze per la grande Milano, allora governata da Ludovico Sforza (“il Moro”), anch’egli trentenne. Milano divenne poi la casa di Leonardo per più di 25 anni.
Ho sempre avuto un debole per Leonardo, lo ammetto.
Avete presente quando vi chiedono: “Con chi vorresti uscire a cena dei grandi del passato?” – sì, fa un po’ job interview o giochini di Facebook, ma la verità è che la mia prima risposta cade sempre su Leonardo. Lui rientra nel grande cerchio delle affinità elettive che, come mi piace pensare da molti anni, mi accompagna sempre. E’ stato inevitabile, dunque, per me avvertire la conferma di questo legame sin dall’introduzione di Isaacson: “Fu quando era in procinto di superare l’inquietante traguardo dei trent’anni, che Leonardo da Vinci scrisse una lettera al signore di Milano, elencando le ragioni per cui sarebbe stato opportuno offrirgli un lavoro”.
L’aspetto curioso è che, contrariamente a ciò che si possa pensare, Leonardo non si riconosceva tanto come un pittore, non menzionò nessuno dei dipinti nella lettera al Moro, atto più che mai eloquente su quanto egli stesso si considerasse uomo di scienza e ingegnere, prima di tutto. La sua arte traeva ispirazione e forma dalle sue stesse ricerche scientifiche, così innovative da risultare spesso incomprese, come i suoi studi architettonici del 1482-1485 per ri-progettare Milano, al fine di rendere la città più sicura e più igienica, a seguito dell’impietosa peste bubbonica che ne aveva ucciso quasi un terzo degli abitanti. E’ vero, gli spunti per questa “città ideale” non vennero mai accolti da Ludovico, ma è affascinante immaginare come sarebbe adesso Milano se solo avessero ascoltato il parere di un visionario.
A riprova della sua avanguardia, vediamo che attraverso tutto il suo lavoro, che coinvolse molteplici ambiti, Leonardo arrivò a una concezione del mondo che in qualche modo anticipava la visione meccanicistica di Newton, e creò parallelismi tra tutti i movimenti dell’universo, dal moto degli arti umani alle macchine militari, tutte governate dalle medesime leggi. “L’uomo come macchina” fu probabilmente una delle più grandi conquiste intellettuali di Leonardo, che aprì le porte alla scienza dei secoli successivi.
Per altro, trovo davvero degna di nota un’altra sua magnifica capacità, replicabile ancor oggi nel 2020 per la maggior parte di noi, ovvero l’abilità di coltivare la sua insaziabile curiosità accompagnandosi sempre da altre menti brillanti dell’epoca, sapendo riconoscere il momento di abbandonare una culla rinascimentale (Firenze) per un’altra città in grande espansione culturale (Milano), e circondandosi di sempre maggiori stimoli, di vivacità, di esperti eclettici.Del resto, “Le idee spesso fioriscono là dove l’ambiente accoglie tante persone dagli svariati interessi, che si incontrano ‘per serendipità’”, ci insegna Isaacson, “Ecco perché Steve Jobs voleva che nella sede dell’azienda ci fosse un atrio centrale dove la gente si incrociava, ed ecco perché il giovane Benjamin Franklin fondò un club nel quale si riunivano ogni venerdì i personaggi più interessanti di Philadelphia”.
In aggiunta agli indiscutibili talenti con cui venne al mondo, l’inestimabile pregio di Leonardo – il suo vero “genio”, ecco, ora sì – a mio avviso risiedeva ella sua incredibile capacità di mescolare abilmente diverse discipline, connettere le arti alla tecnologia, gli studi umanistici alla scienza anatomica, vedere le sue opere ingegneristiche applicate agli spettacoli teatrali.
Ecco, il multiforme ingegno di Leonardo.
E cosa mai può esserci di più attuale di questo, soprattutto in un’epoca in cui sempre di più ci viene richiesta una poliedricità manifesta, in qualunque tipo di lavoro andremo a svolgere? La filosofia entra nel management delle aziende, la psicologia svela le regole del marketing, l’arte diventa la base della user experience di ogni sito.
Leonardo riuscì a perseguire la conoscenza per puro amore della conoscenza e questo è semplicemente straordinario e immortale: di certo non gli servivano gli studi delle valvole cardiache o i muscoli del viso per dipingere la Gioconda (1503-1504), eppure lo fece e lo fece per anni, dissezionando cadaveri, e lo studio dell’anatomia migliorò infinitamente le sue stesse opere.
Era necessario? Quasi sicuramente no.
Fu premiante? Giudicate voi.
Suggerimento: andate al Museo del Cenacolo Vinciano e lasciatevi ammaliare dall’Ultima Cena (1494-1498), forse l’opera più innovativa e sperimentale del nostro artista, simbolo di interessi molteplici intersecati tra loro su un dipinto parietale di più di 8 metri x 4.
Leonardo amava definirsi “discepolo dell’esperienza”, una sorta di autodidatta, che riuscì a capire l’importanza dello studio teorico associato alla pratica, divenendo pioniere di un nuovo metodo di studio, in un’epoca in cui l’Europa era ancora per larga parte preda delle superstizioni medievali. Leonardo fu un grande rivoluzionario per la forma mentis umana e pensare che solo lo scorso anno, qui a Milano, si sono celebrati 500 anni dalla sua morte mi lascia letteralmente attonita.
E così, una delle considerazioni di Isaacson che mi sono ritrovata a sottolineare a matita con più forza possibile va proprio in questa direzione: “La profonda intelligenza delle osservazioni di Leonardo non era un superpotere, ma il prodotto dei suoi sforzi”. E spero che questo possa essere sempre di grandissima ispirazione a chiunque abbia il coraggio di non mettere freni alla propria curiosità e alla necessità di saziarla.
Ai più intrepidi lascio la lettura di un post su Leonardo scritto da qualche bibliotecario: dove si trovano riferimenti a diversi contenuti originali digitalizzati. E come suggerisce il mio amico Francesco, pensate a quanto Internet potrebbe garantire ad ognuno di noi di essere un Leonardo alla n-esima potenza, grazie all’accesso alle fonti primarie che fino a vent’anni fa avevano quattro studiosi e basta. E dunque, lo sprone a un uso consapevole dello strumento potrebbe essere: “cosa farebbe Leonardo, con il digitale?”.
“Da Leonardo ho imparato quanto il desiderio di meravigliarci dei fenomeni del mondo in cui ci imbattiamo quotidianamente possa rendere più ricco ogni momento della nostra vita”.
Titolo | Leonardo da Vinci
Autore | Walter Isaacson
Casa Editrice | Mondadori
Anno | 2017