A morte Hollywood! Il cinema camp di John Waters
“Potere al popolo che si oppone alla cinematografia di merda”
A morte Hollywood – 2000
Beverly Stutphin (Kathleen Turner) è una moglie e una madre perfetta che vive in un incantevole e assolato quartiere residenziale di Baltimora. Ma Beverly ha un lato oscuro: è una psicopatica assassina ossessionata dalla perfezione e dalle convenzioni sociali. Attenti a non indossare mai delle scarpe bianche dopo il primo lunedì di settembre o potrebbe spietatamente uccidervi.
La signora ammazzatutti (Serial Mom, 1994) è stato l’inizio di un amore eterno tra me e John Waters. Quale occasione migliore di un lockdown 2.0 per imbastire una retrospettiva su un autore che si è affermato come icona del cinema camp? (Sull’annosa questione tra cosa sia camp, kitsch o trash mi permetto di suggerire un testo assolutamente geniale, Andy Warhol era un coatto di Tommaso Labranca).
Nonostante non abbia mai perso occasione di ribadire come i suoi film fossero privi di qualsiasi velleità critica, è evidente la lotta contro la borghesia fatta di ipocrite convenzioni sociali e pessimo buongusto kitsch, come i fenicotteri rosa di plastica utilizzati come “deliziosi” ornamenti da giardino. La sua arma è tutto ciò che è riprovevole, tanto da autoproclamarsi The King of Filth (Il re dello schifo). Mette in scena l’estremo e il degenerato: incesto, commercio di neonati, cannibalismo, zoofilia e coprofagia. Un cinema poco adatto ai troppo deboli di stomaco, bisogna ammetterlo.
Tuttavia si scaglia anche contro il mezzo più privilegiato per rappresentare l’infimo ceto medio statunitense: il cinema hollywoodiano nella forma del melodramma – genere di cui si appropria per poterlo distruggere dall’interno. A morte Hollywood – Cecil B. DeMented in inglese – è una critica esplicita ai film blockbuster, prodotti di massa epurati di sangue e sesso, privati completamente della carica sovversiva che è propria del cinema d’autore. È la storia di una squinternata troupe cinematografica che vuole realizzare il film d’autore per eccellenza, che si risolve in una serie di attacchi terroristici nei luoghi del cinema commerciale.
John Waters nasce, cresce e tutt’ora vive a Baltimora, Maryland. Qui sono ambientati tutti i suoi film, dal primo all’ultimo (compresi i cortometraggi irrecuperabili che lui stesso ha fatto sparire dalla circolazione). Nell’autobiografia Shock dichiara apertamente il suo amore per questa città contraddittoria, piena di ubriaconi violenti e bravi borghesi cattolici, esibizionisti e drogati, neonazisti e queer. Cinefilo, inizia a studiare cinema all’università ma è convinto che il cinema sia meglio farlo che studiarlo, così lascia il mondo accademico per dedicarsi alla professione registica a tempo pieno.
La sua filmografia segue una parabola ascendente, dal vomitevole aberrante a un disgusto ripulito e digeribile dal pubblico più hollywoodiano. Propongo allora un movimento contrario, una catabasi verso le viscere più ripugnanti e dissacranti delle sue pellicole: alla scoperta del John Waters delle origini. Trait d’union di questa selezione è la presenza di Divine, amica e musa ispiratrice del regista con una fisicità strabordante, una recitazione sopra le righe e un look indimenticabile destinato a diventare il modello di riferimento nella creazione di Ursula, la cattiva del cartone animato La Sirenetta.
Hairspray, 1988
Probabilmente il suo film più celebre, da cui ne hanno ricavato un musical di Broadway e un remake di Adam Shankman con John Travolta e Michelle Pfeiffer. Si tratta di una commedia musicale che mostra la storia di Tracy Turnblad (Ricki Lake), una ragazza un po’ cicciottella che vuole a tutti i costi partecipare al programma televisivo The Corny Collins Show – una sorta di proto-“Non è la Rai” basato su adolescenti ballerine. La situazione è destinata a sfociare in una rivalità senza esclusione di colpi tra la giovane protagonista e la madre Edna (Divine) contro Amber e i suoi genitori (interpretati da Debby Harry e Sonny Bono).
Il film segna un punto di svolta nellla sua cinematografia. Per la prima volta Waters può disporre di un budget oltremodo alto per i suoi standard, ben oltre i due milioni di dollari. Da questo momento in poi il suo cinema perderà del tutto quell’estetica homemade che l’aveva da sempre caratterizzato. In vista di un pubblico più mainstream la sua cifra stilistica principale, lo schifo, è citata più che dichiarata (come il vestito rosa con fantasia di scarafaggi neri). Rimane un film cult, folle nei suoi moderati degeneri come le carcerate che si stirano i capelli per lisciarseli – usando letteralmente il ferro da stiro.
Polyester, 1981
Francis Fishpaw (Divine) è madre di una famiglia borghesuccia altamente disfunzionale: la figlia è una facilona new age con la fissa per il macramè; il figlio è un feticista delle scarpe col tacco; il marito è un fedidrago gestore di una catena di cinema porno.
Se in Hairspray la famiglia tutto sommato è un nido e ci si aiuta a vicenda, qui è un covo di serpi. I genitori detestano i figli e viceversa. L’unica speranza per uscire da questo inferno è l’amicizia – in particolare tra Francine e Cuddles (Edith Massey) – forte legame affettivo spesso oscurato dall’ingombranza del valore che la borghesia attribuisce al nucleo familiare. La religione, altro importante pilastro bourgeois, è mostrata come una violenta imposizione ideologica: per impedire alla figlia di abortire, Francine chiama le suore che arrivano, prendono di peso la povera LuLu, la schiaffano nel bagagliaio e la portano via.
In Polyester il cattivo gusto è nell’aria. Non bastano gli interni domestici stipati di cianfrusaglie orrende. Più che la vista è l’olfatto ad essere chiamato in casa: Fracine ha una vera ossessione per gli odori e cerca rimedio alla puzza che la perseguita utilizzando scadenti profumatori per ambienti. Durante la proiezione in sala veniva dato agli spettatore l’Odorama, un gratta&vinci che sprigionava disgustosi olezzi, da usare in specifici momenti del film.
Female Trouble, 1974
Il concetto di famiglia disfunzionale tocca l’apice. La liceale Dawn Davenport (Divine) scappa di casa il giorno di Natale perché i suoi genitori si rifiutano di comprarle i cha cha heels. Viene stuprata da uno che le sta dando un passaggio e rimane incinta di Taffy. Finisce in mano a una coppia di fascisti che le fanno fare da modella per dei servizi fotografici sul tema de “il crimine è bellezza”. L’etica è rovesciata: è il male che è bello, glamour. L’estetica si sovrappone all’etica ed entrambe si oppongono alla norma. La figlia, cresciuta, va alla ricerca del padre. Lo trova ma lo pugnala a morte perché lui tenta di stuprarla.
Si ritrovano le orribili tappezzerie e il decor scadente già incontrate in Polyester. Il focus non è l’odore ma il corpo. Le fisicità strabordanti di Divine e di Edith Massey sono costrette in abitini succinti che fasciano questi abbondanti tripudi di grasso. Divine è divina (!) quando passeggia per le strade di Baltimora nel suo strettissimo tubino blu leopardato sbrilluccicante a suon di rock’n’roll.
Pink Flamingos, 1972
Con soli mille dollari di budget Waters è riuscito a creare una pellicola destinata a diventare un cult della storia del cinema. Divine, fuggiasca criminale, deve disfarsi dei coniugi Marble che vogliono rubarle il titolo di persona vivente più disgustosa (“the fitlhiest person alive”). È la manifestazione più emblematica della poetica del regista, basata interamente sullo shock. La lotta per essere le persone più schifose è senza esclusione di colpi: incesti, feticismi, zoofilia, cannibalismo. Alla cinepresa non sfugge niente: feci, genitali, ani dilatati in bella mostra. Vale tutto, basta che sia scioccante.
Di questo film ne aveva già parlato più approfonditamente Alessandro Pigoni. Per questo motivo passerei oltre. Solo un’ultima curiosità: la premiere si svolse nel ‘72 nell’oratorio della chiesa del quartiere in cui viveva John Waters.
Multiple Maniacs, 1970
Divine è proprietaria di un freak show chiamato “La cavalcata della perversione”. Vengono portati in scena oscenità e feticismi di ogni tipo, come “il mangiatore di vomito”. Durante il film Divine viene stuprata innumerevoli volte, una delle quali da un’aragosta gigante chiamata Lobstora.
A metà pellicola si assiste ad una delle più dissacranti scene cinematografiche: Divine viene scopata analmente da una donna con un rosario mentre un montaggio alternato mostra la moltiplicazione del pane in cassetta e del tonno in scatola. Il regista ha affermato che un porno e la parabola di Cristo sono uguali nel loro ripetersi uguali a se stessi: Cristo nasce, fa dei miracoli e alla fine viene crocifisso sul Golgota; in un porno due si incontrano, fanno miracoli e alla fine vengono.
Riuscirete ad arrivare negli abissi più profondi del disgusto?
Alessio Chiappi