La vita segreta dei villaggi della Georgia: intervista a Natela Grigalashvili

La vita segreta dei villaggi della Georgia: intervista a Natela Grigalashvili

Una conversazione con la prima fotoreporter donna della Georgia

The Doukhobors' Land (3), by Natela Grigalashvili
The Doukhobors' Land (3), by Natela Grigalashvili

Mi sono imbattuta nelle foto di Natela per la prima volta su Instagram, più o meno due anni fa. Mi ha catturato fin da subito il ritratto intimo di un paese remoto, che sembra essere sospeso in un altro tempo. I suoi scatti sono forti e delicati al tempo stesso, e rivelano la vita nascosta delle popolazioni rurali della Georgia, e la fatica e i piccoli gesti quotidiani delle donne del suo paese. Natela Grigalashvili è nata nel 1965 in Georgia. Vive a Tbilisi, e ha realizzato molti progetti fotografici viaggiando in lungo e in largo per il suo paese e diventando la prima fotoreporter donna in Georgia. Non parliamo la stessa lingua, e questa intervista è stata tradotta diverse volte da uno scambio di email. Nel mezzo di una pandemia, la finestra segreta aperta dalle sue foto mi investe come una ventata di aria fresca..

Portrait By Nina Baidauri
Portrait of Natela Grigalashvili By Nina Baidauri

Come hai incominciato a fotografare?

La ragione per cui ho incominciato è stata il cinema. Ho amato molto il cinema da piccola, mi ricordo ancora le vecchie riviste di cinema sovietiche che c’erano nella biblioteca del mio villaggio. Ne avevo alcune anche a casa, le compravo con i soldi del pranzo. Le leggevo e le rileggevo, continuamente. Finita la scuola, partii per la capitale, Tbilisi, per realizzare il mio sogno. Per studiare cinema e passare gli esami dovevo imparare la fotografia. Ho iniziato a frequentare un atelier locale per studiarne le basi tecniche. Ero l’unica ragazza in un gruppo di ventiquattro persone.

A quel tempo la fotografia era considerata una professione inappropriata per una donna, per questo non in molte se ne interessavano. Sfortunatamente, non ho potuto continuare a studiare cinema, perché era troppo costoso, e mi ero ritrovata da sola, costretta a sostenermi con le mie forze. Ho continuato invece sulla strada della fotografia, e adesso sono contenta che sia andata così, perché amo questo strumento di comunicazione e ho una libertà creativa nel portare avanti il mio lavoro che non avrei mai avuto come cineasta.

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Il sogno del cinema non si è realizzato, ma le tue foto conservano una sensibilità molto cinematografica: eri ispirata dal lavoro di alcuni registi o direttori della fotografia in particolare quando hai cominciato a scattare? Le tue ispirazioni sono cambiate?

Per lungo tempo, ancora prima di incominciare con la fotografia, ero innamorata del neorealismo italiano, e vedevo molti film di questo genere in televisione. Credo che abbiano avuto una grande influenza su di me, specialmente all’inizio della mia carriera di fotografa. Sicuramente devo menzionare il regista georgiano Otar Ioseliani, amavo i suoi film, specialmente Once Upon a Time There was a Singing Blackbird. Ovviamente amo ancora questi film che mi hanno segnato da giovane, ma ultimamente ho meno tempo per godermeli. Il tempo passa e i gusti cambiano, si trovano nuove ispirazioni, ci affascinano cose nuove. In questo momento mi piace molto Abbas Kiarostami, in particolare il suo film 24 Frames.

Le tue foto hanno un tono intimo, raggiungono lo stile “fly on the wall”. Come rendi accettata la tua presenza in una realtà così piccola, soprattutto dopo aver lasciato il tuo villaggio per studiare a Tbilisi?

La maggior parte dei miei progetti sono a lungo termine. Impiego diversi anni per realizzare ciascuno di loro. Per me la parte più importante dei progetti fotografici è la comunicazione con le persone, solo in un secondo momento arriva la fotografia. Nonostante io abbia passato gran parte della mia vita in città, credo di non aver mai perduto la connessione con il mio villaggio natale. Non ho mai dimenticato chi sono e da dove vengo. Forse per questo motivo le persone che vivono nelle aree rurali mi accettano con facilità: non mi vedono come una straniera, e questo me lo hanno detto varie volte.

Uno dei temi principali al centro del tuo lavoro è la vita nascosta di piccoli paesi, remoti villaggi e comunità in via di sparizione nelle montagne. Le tue foto sono attraversate da un senso di nostalgia, ma anche dalla sensazione di essere di fronte a un mondo immobile e surreale. Perché hai deciso di tornare nel tuo villaggio?

Come ho detto prima, ho lasciato il mio villaggio e mi sono trasferita nella capitale a sedici anni per continuare a studiare. Da allora, vivo a Tbilisi. È stato un processo difficile dal punto di vista emotivo, ma volevo inseguire i miei sogni. Sono cresciuta in una piccola casa, all’estremità del villaggio verso le montagne e le foreste, tra la calma e a contatto con la natura. Mi sono ritrovata improvvisamente in una grande città, tra complessi di palazzi enormi e persone che non somigliavano affatto a quelle con cui ero cresciuta nel mio villaggio. Mi sono sentita molto sola, e mi mancava casa. Tornavo nel mio villaggio, Tagveti, ogni volta che ne avevo l’occasione, e fotografavo qualunque cosa: i luoghi, le persone del posto. Lo facevo perché volevo conservare più ricordi possibile da portare con me una volta tornata a Tbilisi. Così sono iniziati i miei progetti “Village of the Mice” e “The book of my Mother”, entrambi ambientati nel mio villaggio, che ho fotografato per più di trent’anni.

Il tuo stile ha le sue basi nella realtà, ma il più delle volte risulta onirico e immaginifico.
Preferisci scattare in analogico o in digitale?

Uso principalmente la camera digitale, ma per molto tempo all’inizio della mia carriera ho scattato fotografie analogiche in bianco e nero.

Come ti senti a essere la prima donna fotoreporter del tuo paese? Quali sono i maggiori ostacoli che ti sei trovata davanti?

Quando ho iniziato, non era una professione considerata consona per una donna. Per questo la mia famiglia era molto scontenta della mia decisione. Ma col passare del tempo si sono abituati alla cosa, e hanno smesso di contestarla. Non posso dire di aver avuto grandi problemi con le persone in generale, ma si sorprendevano, specialmente negli anni ottanta e all’inizio degli anni novanta. Quando andavo a fare i servizi che mi assegnavano per degli articoli di giornale spesso i miei intervistati mi dicevano che si aspettavano di vedere un uomo più anziano e con un bel paio di baffi, invece si trovavano di fronte una giovane donna con la sua fotocamera =)

Le tue foto mostrano una realtà rurale e povera difficile per i suoi abitanti. Qual è la situazione socio-economica nel tuo paese?

Non sono un’economista e non so quello che le analisi ufficiali riportano, ma sulla base della mia osservazione posso dire che diventa sempre più difficile vivere in Georgia, specialmente nelle aree rurali. Per questo motivo molte persone lasciano i villaggi per spostarsi nella capitale. Le ragioni non sono solo economiche, ma anche sociali.

Di fatto tutto è concentrato nella capitale, Tbilisi, mentre le altre regioni sono in difficoltà e non sono sviluppate da un punto di vista culturale, economico e sociale. La gioventù lascia il paese a causa della disoccupazione ma anche delle scarse opportunità di ricevere un’educazione adeguata, e spesso supporta le famiglie dall’estero.

Qual è il processo che sta dietro a un progetto fotografico? Come trovi un fil rouge e scegli uno specifico soggetto da seguire?

Amo viaggiare attraverso le regioni della Georgia. Per molti anni, quando avevo solamente un giorno libero dal mio lavoro, andavo nella stazione dei bus, leggevo i nomi delle destinazioni e ne sceglievo una, saltavo sul bus e andavo dove mi portava. Cercavo di scegliere posti che potevo visitare in giornata. Parlavo con la gente che viaggiava con me sul bus, chiedendogli dettagli sui loro villaggi.

I georgiani sono molto educati e gentili, e hanno sempre storie interessanti da raccontare. La maggior parte dei miei progetti è nata così, dalle idee che mi venivano parlando con persone che provengono dalle aree rurali. Se mi interessa un posto o un evento in particolare, allora porto avanti una ricerca più specifica per collezionare più informazioni possibile. Solo in un secondo momento inizio a visitare quei luoghi, più spesso e a lungo che riesco.




Puoi raccontarci qualcosa del tuo progetto “Book of my mother”? Com’è incominciato, e come sei riuscita a rapportarti con un soggetto così personale e intimo? Come hai scelto la giusta distanza tra te e il tuo soggetto?

Ho iniziato il progetto appena ho cominciato a studiare fotografia e ho ricevuto la mia prima macchina fotografica in regalo da un amico. Ho sempre avuto un rapporto difficile con mia madre, e le cose sono peggiorate quando ho lasciato casa per vivere a Tbilisi. Mi mancava costantemente, ma allo stesso tempo provavo rabbia nei suoi confronti quando ero lontana. Nonostante ciò, la fotografavo più che potevo quando tornavo a casa. Mi ci sono voluti anni per realizzare che l’amarezza e il rancore che avevo in cuore non erano giuste. Il progetto mi ha aiutato a superare il passato.

Spesso ritrai la vita quotidiana delle donne, catturando piccoli dettagli e rituali della vita domestica. Com’è essere una donna in Georgia? Hai dei legami con altre donne che si occupano di fotografia e altre artiste nel tuo paese?

La scena artistica georgiana non è molto grande, quindi la maggior parte degli artisti si conoscono tra di loro. Ovviamente ogni vita è differente, ma ci sono dei dettagli basilari che credo uniscano la maggior parte di noi donne in Georgia. Artiste o meno, siamo madri, mogli, e spesso una gran parte della nostra vita è dedicata a prenderci cura dei nostri figli, svolgere faccende domestiche. Per molte donne è un problema, perché tutto questo lavoro non retribuito impiega molto tempo e va a incidere sulla loro crescita personale, sulla carriera e il lavoro artistico.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Attualmente sto pianificando diversi progetti, e uno di questi sarà a Tbilisi. È qualcosa di nuovo per me, perché non ho mai portato avanti un progetto a lungo termine in città. Vediamo come va.

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[NOTA: la versione inglese dell’intervista è disponibile a questo link]

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