Tiger King: un viaggio nell’America vera
Anno: 2020 | Numero di episodi: 7+1 | Durata: 41-49 minuti (episodio)
Il traffico di specie esotiche è il terzo business della criminalità internazionale, dopo droga e armi ma prima di quello di esseri umani.
Da noi in Italia non è un problema particolarmente sentito (ma sappiate che prima che scoppiasse ‘sto casino del virus, c’era una pantera fuggiasca che scorrazzava in Molise e chissà dove sarà ora), mentre in America eccome se lo è. “Ci sono più tigri in cattività in Texas che in tutto il sud-est asiatico” è il mantra che si sente ripetuto sempre più spesso. Certo, il Texas è bello grosso e non è che le tigri in natura siano mai state comuni come nutrie, ma comunque sono cifre impressionanti.
È un problema sotto vari punti di vista: ecologico, sanitario (pipistrelli, anyone?) ed, appunto, anche e soprattutto economico.
Se a questo ci aggiungete pure una componente sociale, non necessariamente associata all’allevamento di animali esotici ma comunque favorita da certe situazioni d’emarginazione, otterrete l’ultima fatica di Netflix: Tiger King: Murder, Mayhem and Madness, una “docu-serie” ambientata nell’inquietante mondo degli zoo privati americani che è diventata in brevissimo tempo una delle serie più viste di sempre.
La serie ruota attorno al duello legale (e non solo) tra Joe Exotic e Carole Baskin. Joe “Exotic” Maldonado, colorato protagonista dello show, alleva con un certo successo tigri in un piccolo zoo dell’Oklahoma. Da qui le esporta in tutto il paese guadagnando una somma considerevole e attraendosi le attenzioni, l’invidia e la preoccupazione di altri allevatori così come di chiunque lavori nel mondo della fauna selvatica. C’è chi lo ammira, chi lo invidia, chi è preoccupato dal suo profitto e chi ancora si interessa al benessere degli animali.
Tra costoro c’è Carole Baskin, fondatrice di Big Cat Rescue (organizzazione senza fini di lucro) che conduce da sempre una guerra legale ed ideologica per vietare il possesso di grandi felini da parte di privati cittadini come Joe. Certo, non che la sua morale sia limpidissima e più di una volta viene ventilata l’ipotesi che questa crociata sia portata avanti più per spazzare via la concorrenza che per altro, ma la serie è particolarmente abile nel non schierarsi mai, narrando tutto senza far davvero percepire un lato giusto ed uno sbagliato.
I due personaggi sono diametralmente opposti eppure estremamente simili, quasi come fossero i Batman e Joker di The Killing Joke di Alan Moore e viene da pensare che in un altro universo i due ruoli possano invertirsi senza troppe difficoltà. Proprio come nei fumetti di Batman, una meravigliosa pletora di antagonisti e sidekick altrettanto carismatici e bizzarri accompagna il duo: c’è il viscido allevatore di tigri che si crede un satrapo orientale, c’è lo squalo finanziario pronto a buttarsi su questo o quell’affare non appena percepisce l’odore del sangue, c’è un intero gruppo di casi umani che davvero ama gli animali (in una maniera morbosa e inquietante, ma quantomeno sincera) che si trova invischiato suo malgrado in una storia di meschinità, disagio e sopraffazione.
Altro che tigri! Qui ognuno è preda e predatore: Joe raccoglie emarginati e reietti come Scar faceva con le iene, l’impero di Carole si regge sulle spalle di giovani idealisti che lavorano (non pagati) nel suo zoo, Bhagavan si circonda di concubine come fosse un Weinstein in sahariana. Eppure tutti a loro modo sono fragili risultati di una società sbagliata.
Perché la società americana – molto più di quella europea, va detto – è quella che più si presta a vedere nascere e crescere storie di questo tipo: una società basata sul narcisismo e quindi sull’individuo, dove chiunque è portato ad avere un’esagerata visione di sé, a credersi superiore a tutti e quindi in diritto di compiere qualunque cosa; dove lo Stato è un nemico e dove il successo è l’unico vero metro di misura del valore di un individuo.
D’altronde, l’America è la nazione che ha inventato Las Vegas: dove tutti possono cambiare la propria vita con un lancio di dadi. A qualcuno succede (e diventa Presidente), la maggior parte si sveglia – se va bene – solo in hangover.
Non è semplice capire di cosa parli Tiger King: c’è la storia del maltrattamento degli animali, le affiliazioni tra questo mondo e quello della criminalità così come con quello dello star-system, c’è la faida tra Joe Exotic e Carole Baskin, ci sono mille storie di degrado sociale e abusi personali che permeano tutto (ciascuna delle quali meriterebbe uno show a sé). Ma più di tutto è uno dei migliori spaccati della società americana, in cui ogni personaggio – finanche un bifolco dell’Oklahoma con la sobrietà di Andrea Diprè – è portato a credersi un Icaro non solo in grado di volare vicino al sole ma anche di meritarsi di poterlo fare.
In questo enorme manicomio a stelle e strisce, gli unici a non beneficiare di nulla sono ovviamente gli animali, trattati come merce in nome del loro stesso benessere. Dopo pochi giorni di programmazione, l’annoso dibattito sulla legittimità degli zoo si è riacceso (non che si fosse mai spento, ma è sicuramente tornato “trending-topic”).
Tiger King ha tanti meriti: tra questi, quello di aprire gli occhi sul sistema legislativo che dovrebbe occuparsi del welfare degli animali è probabilmente uno dei più interessanti. Animali cresciuti in batteria al solo scopo di posare in foto coi turisti, spesso dismessi in malo modo quando non più “carini e coccolosi” e quindi sfruttabili: questo è tutto ciò che uno zoo non dovrebbe essere.
Ma cerchiamo di distinguere tra gli zoo intesi come istituzione egli zoo come fonte di profitto.
Siamo (quasi) tutti d’accordo nel dire che i singoli animali ospitati negli zoo possono avere una vita che secondo standard umani risulterebbe insostenibile (e per quelli della serie è chiaramente così), ma è anche vero che gli zoo possono essere strutture all’avanguardia e in prima linea nella difesa per l’ambiente. Due delle principali società di conservazione ambientale (la Zoological Society di Londra e la Wildilife Conservation Society di New York) amministrano gli zoo delle rispettive città, e alcuni dei più importanti programmi di reintroduzione in natura di specie a rischio sono portati avanti proprio dagli zoo.
Il ché ovviamente non vuol dire che gli animali ospitati siano “felici” e, probabilmente, come le cavie da laboratorio, se potessero scegliere non vorrebbero nascere cavie (ma, appunto, dovremmo prima metterci d’accordo sul concetto di felicità nelle specie non umane). Il loro “sacrificio” – proprio come quello delle cavie – può però essere ampiamente ricompensato in un’ottica più ampia.
La cattività degli animali può essere tollerabile, il business che c’è dietro no.