E non sentirci mai più soli. La nuova luce dei Pearl Jam
I hope you get this message, or you’re not home
I could be there in ten minutes or so
oh I got my things, we’ll make it up as we go along
with you I could never be alone
“Come stai?”, ho chiesto a Francesca l’altra sera.
Parrebbe più che mai un esercizio di vuota retorica, chiederlo di questi tempi. Nessuno, a inizio aprile 2020, potrebbe mai rispondere “bene” a quella domanda, nemmeno chi sappia riconoscersi serenamente in quella parte privilegiata della popolazione – non proprio maggioritaria, a occhio – che sta vivendo questo isolamento forzato senza grossi problemi di lavoro, in case accoglienti, non in totale solitudine e senza dover fare quotidianamente i conti con qualche tipo di sofferenza psichica. Eppure vale la pena continuare a farlo, in un momento in cui le parole scritte o pronunciate attraverso schermi sono l’unico modo rimasto per stare vicini.
Per esempio, l’unico modo per vedere mia madre e dirle che mi manca guardandola negli occhi, pur avendo sempre ben presente il terrore assoluto che il 10 febbraio scorso possa essere stata l’ultima volta che l’ho vista e abbracciata. Per esempio, la maniera che ho per raggiungere i miei vecchi amici di Crema – ora sparsi per l’Italia e l’Europa – e far sapere loro che ora esiste un Francesco diverso da quello ombroso e solitario che avevano conosciuto nei loro vent’anni. Per esempio, rivedere i volti dei colleghi in una riunione collettiva dopo settimane di visione a tunnel e lavoro matto e disperatissimo senza un contatto – che io stesso evitavo per paura di mostrarmi così solo e vulnerabile.
“Qualche pensiero di troppo”, mi ha risposto Francesca, una delle cose più simili a una sorella minore io abbia mai avuto.
E l’immagine, fortissima, che mi si è palesata è stata quella di lei corrucciata, i piedi nudi affondati nella sabbia di una spiaggia deserta, intenta a guardare il cielo nuvoloso, immenso e imprevedibile all’orizzonte – la copertina di On The Beach di Neil Young, per intenderci. È stato un attimo afferrare il telefono, battere le parole di Untitled dei Pearl Jam sui tasti e allegarle la canzone: “con te non potrei mai sentirmi solo” era tutto quello che avevo da dirle per farle capire che sarebbe valso sempre pure il viceversa.
Ma perché proprio i Pearl Jam? E fra tutte, perché proprio quel pezzo?
Ci arrivo con calma: tanto, ora come ora, non c’è proprio motivo di avere fretta.
L’estate del 2000 fu un’estate identica a tutte le precedenti ma diversissima dalle altre, per me.
Certo: avrei passato come sempre due settimane al mare con mia madre, e come sempre a Igea Marina nella solita pensione a due stelle di tutte le estati della mia adolescenza; ma a farmi compagnia quell’anno ci sarebbe stata la musica. Da un po’ di tempo mi ero trasformato in un ascoltatore compulsivo, ma solo da pochi mesi quel passatempo si era mutato definitivamente in ragione di vita – anzi, in uno strumento utile prima a sopportare e poi a capire il mio stare al mondo.
Galeotto fu Binaural dei Pearl Jam, comprato per caso dalla mamma in un piccolo negozio: dato che non era ancora uscito quell’orrore di Brave New World degli Iron Maiden che volevo tanto, il suo occhio e la sua scelta caddero su quella misteriosissima copertina con una nebulosa dallo spazio profondo.
aDopo le lamentele di circostanza – non ho mai perso l’ottima abitudine di lagnarmi delle cose che non corrispondano al centimetro ai miei desideri – misi il disco nel lettore e rimasi folgorato da suoni disorientanti e una voce che avrei voluto essere la mia. Da allora, e per sei anni buoni, Eddie Vedder, Stone Gossard, Mike McCready, Jeff Ament e un batterista a caso divennero per me una sorta di religione.
Bene. Me ne stavo in panciolle nella mia camera al mare in una mattinata di temporali vicinissimi, e così il marito della cugina di mia madre si propose di portarci a MediaWorld. Adesso a voi sembrerà giustamente una cosa minuta, ridicola, ma per un campagnolo che viveva nella scarsità e nel non-accesso dell’era prima di Internet, era praticamente un viaggio andata/ritorno dalla Luna: non avevo mai visto, prima di compiere 16 anni, così tanti CD tutti insieme. Me ne tornai a casa con qualcosa di disgraziato – direi Cowboys From Hell dei Pantera – e il Live On Two Legs.
Lì dentro, in quei settanta minuti dal tour di Yield c’erano parecchie delle canzoni che avevo scoperto di amare nei mesi appena precedenti e tanti motivi per cui i Pearl Jam sono considerati ancora oggi una delle migliori live band al mondo, in ambito rock. Però c’era una cosa che mi colpiva più di tutte, ed era una minuscola improvvisazione di centoventi secondi chiamata Untitled – un arpeggino melodico e un testo improvvisato che parlava di distanze da colmare, di voglia di comunità, di esserci per gli altri. Non avevo niente, o così mi pareva, e in un batter di ciglia Eddie Vedder mi aveva regalato tutto.
Quel disco lo consumai a forza di ascoltarlo in spiaggia.
Ancora adesso, a guardarci bene, ci sono ancora granelli di sabbia incastrati nella custodia.
you can spend your time alone redigesting past regrets
or you can come to terms and realize
you’re the only one who can forgive yourself
makes much more sense to live in the present tense
Dicevo: per qualche anno i Pearl Jam sono stati la mia ragione di vita.
La band da cui ho imparato l’attesa messianica per una nuova uscita, quando ancora le date e il tempo avevano un senso; il motivo per cui mi alzavo alle tre di notte per sfruttare la mia connessione a 56k per scaricare dai primi software di file-sharing tonnellate di rarità dai loro live; la voce che mi aiutava a dare voce alle mie emozioni. Dopo Binaural recuperai tutta la loro produzione precedente, quella della loro fase eroica: l’hard fluido di Ten e quello innervato di funk di Vs.; l’implosione garage nella palude suicida di Vitalogy e l’abbraccio al mondo di No Code.
Non avevo mai sentito nessuno che sapesse infondere in ogni nota un senso di pura necessità, come se da quanto suonato dipendesse l’esistenza stessa.
Già Yield aveva un po’ spezzato il sogno: d’improvviso avevo capito che non era così, e che a un certo punto pure i Pearl Jam avevano iniziato a essere semplicemente una band che fa normalissimi dischi e normalissime canzoni, senza quell’urgenza e quell’intensità folli che avevo appena imparato a conoscere. Binaural, l’immediato successore, rimane uno dei loro lavori che amo di più, ma non so quanto c’entri il lato affettivo e l’averli scoperti con quello: fatto sta che sarebbe stato l’ultimo fuoco vero della loro discografia per tanto, troppo tempo.
Perché sì, Riot Act aveva dentro parecchi pezzi meravigliosi e alcuni degli ultimi classici del repertorio, ma l’omonimo del 2006 e Backspacer del 2009 accendevano solo fiamme d’interesse, ma mai quegli incendi emotivi per cui erano diventati famosi e che sembravano sempre ardere nonostante la mancanza di innovazioni formali – nessuno direbbe che la musica dei Pearl Jam sia mai stata “geniale”, ma in fondo chissenefrega. Lightning Bolt, il loro ultimo lavoro, aveva il suono sordo di un chiodo piantato in una bara: fatta salva l’onestà di fondo, era proprio un album poco ispirato, pilota automatico inserito e brutti suoni.
La notte mi assaliva un dubbio: avevo scoperto una band nel suo ultimo, vero momento di grandezza, e poi ne avevo amato un semplice ricordo. Non è questa la negazione stessa del rock’n’roll, che dovrebbe vivere bruciando nel presente?
Poi, a un certo punto, è successo l’inaspettato.
I know the girls wanna dance
fall away their circumstance
I know the boys wanna grow
their dicks and fix and fire things
L’inaspettato aveva le forme di un singolo, dopo un secolo che la prima anticipazione da un nuovo lavoro della band di Seattle aveva smesso di essere eccitante – diciamo dai tempi di I Am Mine, ormai mezza mia vita fa.
Dance Of The Clairvoyants è arrivata come un bel fulmine a ciel sereno e improvvisamente ha fatto discutere fan e hater di mezzo mondo: un ritmo dance da Talking Heads; un canto nevrotico e disarticolato nelle strofe, distantissimo dalla consueta epica vedderiana; un nuovo produttore che ha levato di peso il quintetto dalle sabbie mobili dell’FM rock di Brendan O’Brien, uno che ha fatto più danni della grandine. Soprattutto: finalmente, i Pearl Jam sembravano voler proporre qualcosa di nuovo e, per una volta, sembravano divertirsi un mondo a farlo. Contro ogni previsione, tornava ad aver senso farne un argomento di conversazione che non fosse ammantato della malinconica dolcezza del ricordo.
Un vero lavoro di gruppo, che spazzava via in quattro minuti e mezzo di bassi perforanti e groove il terrore panico scatenato dalla tremenda Can’t Deny Me giusto un paio di anni fa.
Il testo, come altri di Vedder (viene in mente subito Hail, Hail), era una contorta meditazione sull’amore come forza non controllabile e irrazionale, calata nel contesto di un mondo al collasso (“expecting perfection leaves a lot to ignore / when the past is the present and the future’s no more / when every tomorrow is the same as before”).
Il vertice lirico? Quello citato in cima a questo paragrafo, in cui ogni verso completa e contraddice il senso apparente del precedente: le ragazze non vogliono ballare, ma scrollarsi la propria subalternità; i ragazzi non vogliono crescere, ma alimentarsi di una visione fallocentrica del mondo. Una piccola strofa che ricorda come i Pearl Jam già negli anni novanta fossero una delle poche realtà del mainstream – insieme ai Nirvana – a rendere esplicito il supporto a istanze femministe.
Qualche settimana dopo questa piccola rivelazione è arrivata un’altra anticipazione, dal titolo quantomeno bizzarro. E se Superblood Wolfmoon era decisamente meno sorprendente, di sicuro manteneva lo stesso tiro: un garage rock di quelli che sarebbero stati benissimo in Lost Dogs, una di quelle cose che non capisco come i die-hard fan della band possano odiare. Voglio dire: mi pare impossibile amare la cover di It’s Ok dei Dead Moon e poi non adorare un brano in quell’esatto solco e per giunta parecchio riuscito.
Impossibile non farsi trascinare da quel suono ruvido e melodico già al primo ascolto, dalla melodia così attaccolenta da farsi subito earworm anche in mancanza di una canonica struttura strofa-ritornello-strofa. Impossibile non sorridere di fronte all’elettricità del canto di Eddie: sempre affaticato e di rincorsa, come da tradizione degli ultimi anni, ma vitalissimo, emozionato (“she was a stunner and I am stunned / the first thought and second thought was / could be the one”). Perfino quella tamarrata dell’omaggio di McCready a Van Halen nel solo in tapping a metà del brano suona perfetta, in quel contesto.
Due su due, centro pieno. A quel punto non restava che aspettare l’uscita di Gigaton.
whoever said it’s all been said
gave up on satisfaction
C’è stato stato ancora tempo per una sorpresa, però: quarantott’ore prima dell’album è toccato alla Quick Escape di Jeff Ament regalare uno sferragliare hard che dai Pearl Jam non si ascoltava da Ten. Non proprio un’idea futuribile di rock, per carità – pura materia zeppeliniana, vecchia di cinquant’anni – però fresca, colorata, carica: merito di una rabbia sacrosanta (“the lengths we had to go to then / to find a place Trump hadn’t fucked up yet”), di un magma di chitarre mercuriali e riccardone, di una produzione azzeccatissima (sempre sia lodato Josh Evans).
In Gigaton arriva per quarta, subito dopo gli altri due singoli e un’opener scritta da Vedder che – giuro – non avrei mai pensato di sentire da loro alla soglia dei sessant’anni.
Raramente le aperture degli ex-ragazzi di Seattle hanno difettato in energia, ma Who Ever Said è veramente qualcosa di più di una scarica d’adrenalina. Le chitarre squillano metalliche come un Townsend d’annata, la costruzione è ancora una volta inaspettata e il vocalist mostra un ghigno compiaciuto. Ma tutta la band sembra non averne mai abbastanza: il pezzo supera in scioltezza i cinque minuti di durata, e quando tutto sembra finito c’è posto ancora per una piccola reprise di qualche secondo che suona come l’attacco di un nuovo anthem che non sentiremo mai per intero.
Ora: se mi avessero raccontato qualche mese fa che i riferimenti dei primi quattro pezzi del nuovo album dei Pearl Jam sarebbero stati Who, Led Zeppelin e Talking Heads mi sarei messo le mani nei capelli. Mi sarei figurato una sbobba iper-compressa, una festa mesta di chitarre pesanti per contratto e di vorrei-ma-non-posso dad-rock. E invece qui – meraviglia! – tutto ha spazio, respira, si gonfia come un’onda inevitabile.
Dovete sapere che la più grande delusione della carriera dei Pearl Jam, per me, arriva da lontano. Sta proprio all’apice della loro parabola artistica quando, appena dopo No Code, i Nostri scelsero di abbandonare le strade imprevedibili di un’Americana elettroacustica e psichedelica per tornare nel canone di un rock più rauco e via via sempre più canonico e striminzito. E in Gigaton, invece, oltre a ritrovare smalto, la band ha ritrovato pure una voglia di spazi sterminati che piazza questo album da qualche parte tra quel capolavoro assoluto, l’EP Merkin Ball e una versione full band della colonna sonora di Into The Wild.
Lo mette in chiaro la seconda metà del disco che sapientemente abbassa il volume dopo un paio di altre tirate elettriche non altrettanto riuscite – particolarmente Take The Long Way, che ricorda a tutti come Matt Cameron non sia proprio il più brillante dei songwriter.
È pura bellezza quieta quella che invece spande l’arpeggio di Buckle Up, che zampetta fuori da un disco dei R.E.M. sotterranei, laddove invece l’epica di Retrograde non sarebbe stata fuori posto in uno degli ultimi album di Buck, Mills e Stipe; e pure quando Vedder rimane solo per sei minuti di un country-folk schietto e ombroso (Comes Then Goes), è il cuore dell’intera band a pulsare.
D’un tratto, è come se a tutti quanti, tutti insieme, interessasse di nuovo fare qualcosa di più che canzoni accettabili e qualcosa di meglio di un disco purché sia: senza avvertire prima e senza rivoluzioni, i Pearl Jam sono tornati a essere una band pronta a prenderti quando cadi; una mano sulla spalla, mentre l’altra ti indica la direzione.
for this is no time for depression or self-indulgent hesitance
this fucked up situation calls for all hands, hands on deck
Non c’è verso che un genere giurassico come il rock – questo rock – riesca a conservare una vera capacità di rappresentare i nostri anni; non c’è modo che possa rivaleggiare con la capacità di affrescare l’oggi di Kate Tempest, Kendrick Lamar, Camae Ayewa, Frank Ocean o Archy Marshall, perché il presente ha davvero un’altra metrica.
Eppure, fin dalla copertina, Gigaton è un album che non ha paura di stare coi piedi ben piantati nel caos dell’oggi, tra crisi climatica e sovranismo diffuso. Prova a raccontarlo con gli strumenti che ha a disposizione – che non sono molti, sono arcaici, ma luccicano come oro – con un’intensità che a tratti sfiora la preveggenza: dite voi se questa collezione di canzoni motivazionali non sembra composta esattamente per questo preciso momento storico in cui quel che resta della nostra socialità è un saluto da un balcone.
E se i pezzi di cui abbiamo parlato finora – fatte salve sparute eccezioni – sono tutti emozionanti, pieni di una grazia e di una saggezza adulte, non bisogna aver paura di dire che ci sono almeno due momenti in cui la musica dei Pearl Jam torna a farsi gloriosa, epifanica. Dodici minuti in cui letteralmente il mondo problematico intorno smette di esistere.
Stanno a metà e in chiusura, Seven O’Clock e River Cross, e danno le vertigini.
La seconda è un pezzo che Eddie Vedder suona in tour da anni, e infatti il pump organ che si sente è quello della prima demo. Tra tutte le canzoni di commiato degli album dei Pearl Jam – arte in cui da sempre il gruppo eccelle – questa è certo una delle più memorabili: come un Peter Gabriel alla scoperta delle radici della musica folk nordamericana, River Cross è uno sfogo liberatorio e libertario insopprimibile che pare fatto apposto per essere intonato da migliaia di voci insieme (“Live it out / let it out / get it out / shout it out / won’t hold us down”). Un canto indomito, che ancora ingoia veleno fino a diventarne immune e poi urla fino a riempire la stanza.
Ancora più in alto, ancora più luminosa, Seven O’Clock è un brano più grande della vita che si prende tempo per trovare un passo sereno e deciso, che in molti hanno definito floydiano ma che a me – per via di quelle praterie immense su cui gli archi paiono planare – ricorda molto più la versione australiana di quella psichedelia (recuperare i Moffs dallo sprofondo dell’underground ottantiano, prego). E tutto regolare e bellissimo, direi, fino al quarto minuto, quando il brano si trasforma nell’innodia enorme che Unthought Known non aveva la forza di essere.
L’asfalto, in quel momento, diventa sabbia, e mi ritrovo una volta di più vicino al mare, con quella musica possente che ne imita le onde. Ed eccola là, Francesca: la vedo di spalle, questa volta, ma il suo arrovellarsi di fronte alla tempesta che minaccia ognuno e ogni cosa è percepibile anche a distanza. Mi avvicino, ci dividiamo le cuffie, finalmente sorridiamo.
E d’improvviso è come se la voce di Eddie Vedder fosse di nuovo tutto quel che serve per dirci che non saremo mai soli.
Che tutto andrà bene.
Titolo: Gigaton
Autore: Pearl Jam
Etichetta: Monkeywrench, Inc.
Anno: 2020