Ti Chiamo Domani | intervista a Rita Petruccioli
Durante l’ultimo Lucca Comics and Games io e Gaia (da sempre, insieme, la “Lucca Salt Squad” ™) abbiamo avuto il piacere di conoscere Rita Petruccioli, che ha pubblicato con Bao Publishing la sua prima graphic novel da autrice unica: Ti Chiamo Domani. Racconto di crescita personale di una giovane ragazza che impara a conoscere se stessa e il mondo attraverso l’incontro (inaspettato e inatteso) con l’altro.
A Lucca c’è sempre un caos disumano, ma siamo riusciti a ritagliarci il nostro spazio per una intervista con l’autrice. Ed è bastato iniziare a chiacchierare, per trovare quell’angolo di tranquillità che cerca anche la protagonista della storia…
Ti Chiamo Domani è il primo lavoro da autrice unica. Come ci si sente a portare a termine un lavoro solo con le proprie forze, senza lavorare in una squadra come hai fatto in passato?
È bellissimo e allo stesso tempo faticosissimo! Quando si lavora un due o in gruppo, come ho fatto in precedenza, si condividono sia le cose fatte bene che le cose fatte male. Se qualcosa non funziona la responsabilità è condivisa e ci si sostiene molto, soprattutto rispetto alle paure di ciascuno: quando finisci di scrivere un libro c’è sempre quel punto interrogativo gigante, tipo “Ommioddio, avrò fatto bene? Sarà uscito male? Piacerà? Capiranno tutto quello che ci ho messo dentro?” E quando ho finito il libro, portare questo peso da sola ha creato un’ansia pazzesca! Invece poi vedendo che funzionava e che piaceva, è subentrata una soddisfazione gigante. [E infatti ci è piaciuto molto! NdS]
Fra i concetti più importanti nel libro c’è quello di famiglia e casa. Inteso in maniera duplice: sia come corazza/protezione, che la protagonista infatti ricrea e cerca quando sta a Tolosa, sia come limite da cui allontanarsi per trovare la propria indipendenza. Quanto è importante per una giovane trovare la propria indipendenza rispetto alla famiglia?
La questione è questa: questo libro parla delle cose pericolose che ti possono succedere quando sei protetta e delle cose belle che ti possono succedere quando non sei in una situazione -teoricamente- sicura. Questo vale per la storia di Chiara con Daniele, il camionista, che le fa del bene quando sulla carta poteva essere una persona “pericolosa”, e la stessa cosa avviene con la famiglia. La famiglia ti dà tutti quanti gli strumenti per crescere, ma a un certo punto devi metterti in situazioni nuove che appartengono solo a te e alla tua identità, anche a costo di crearti dei “pericoli”. Secondo me i giovani devono assolutamente mettersi in situazione di scoperta e di distacco dalla famiglia.
Infatti, la storia parla molto dell’emancipazione della protagonista. Non solo perché sta crescendo e studiando e sta cercando una propria strada, ma anche come emancipazione dal ruolo di figlia e dal modello maschile che ha rappresentato la relazione principale della sua vita. Ci è piaciuto molto che sia un processo molto naturale, non una ribellione, uno stacco netto, ma un percorso che vive gradualmente con una accettazione progressiva. Non ci sono strappi, ma una vera crescita.
Sì, era quello che volevo. Volevo che ci fosse una crescita che nascesse da una riflessione che può derivare soltanto da un dialogo interno o da un dialogo con una persona esterna, talmente esterna da non appartenere ai ruoli tipici della vita. Non è un padre, un fidanzato, niente del genere. Eppure, è così estraneo che ti aiuta a riflettere. Non volevo al contrario che il libro fosse didascalico e ti dicesse cosa pensare e come.
La scena della violenza è una scena cardine. Leggendola fa venire inizialmente dei dubbi: non sai cosa pensare. Poi la situazione delineata si fa più chiara, man mano che la storia procede. Ci è piaciuto che anche la protagonista la viva in questo modo: inizialmente non sa bene cosa pensarne. È un trauma che non viene però vissuto come tale nell’atto, ma diventa uno spunto per ricominciare e riflettere su se stessa. Un approccio molto umano, nella scrittura.
Di fatto, volevo raccontare il rimosso. Nel dibattito attuale, il discrimine fra violenza e non violenza viene annientato da cose tremende tipo: “allora perché non hai detto no? Perché non lo hai detto subito?”. Invece c’è una serie di cose che vanno elaborate con il tempo e con la crescita, che molto spesso riportano a traumi del passato che si manifestano o si sono manifestati solo negli anni successivi. Solo a posteriori, ti ritrovi a vedere degli eventi del tuo passato e a dargli un peso, rendendoti conto che è lì che è avvenuto il trauma, lì che si è formata la crepa. E quindi l’obiettivo era raccontare questo livello di umanità.
Arriva forte e chiaro!
La protagonista riesce a capire alcune cose su se stessa anche grazie al suo compagno di viaggio, che è accomunato a lei anche da una situazione familiare che non funziona, ma anche un po’ dal dover fuggire di uno stereotipo: per lei quello di ragazza perbene, per lui quello di marito assente e possibilmente violento. Questi aspetti li accomunano e permettono di avere una connessione profonda. In un’altra intervista ho letto che tu hai ambientato la storia qualche anno fa per non avere una sovracomunciazione dettata dai social media e dalla messaggistica istantanea. Secondo te, è possibile un tipo di comunicazione così profonda anche oggi?
Secondo me sì. Diciamo che avendo io scelto di raccontare una ragazza di 22 anni, è veramente difficile che oggi non stia interagendo in mille modi col cellulare e soprattutto non stia interagendo con il fidanzato tramite il cellulare! Immagina che faccia un viaggio in treno, che sieda accanto ad un’altra persona: possono sicuramente parlare come Chiara con Daniele ed istaurare un rapporto profondo. Una delle ipotesi è che fosse, appunto, un tipo diverso di mezzo di trasporto e conseguentemente di compagno di viaggio.
E infatti abbiamo letto che anche tu hai viaggiato in camion! E ti è capitato un compagno di viaggio così interessante?
Ahahahaha sicuramente no! Magari!
È una scelta narrativa non scontata!
Mi è venuta in mente perché l’ho fatta io stessa, ovviamente. E aiuta a scardinare lo stereotipo del camionista buzzurro e cafone, che ha il calendario delle donne nude appeso nel retro del camion ed il cruscotto con l’immaginetta di Padre Pio. Un pregiudizio che io stessa ho scardinato anni fa facendo questi viaggi in camion. Ho scoperto che gli autisti erano ragazzi poco più grandi di me, che venivano nel mio caso dalla campagna sabina, e che non facevano niente al di fuori del viaggio e della guida. Al massimo parlavano fra di loro di sport o di altre cose tramite la radio o il cellulare.
Domanda più tecnica. Tu cambi molto la paletta di colori: non solo per il luogo fisico, ma anche per il contesto emotivo. Come lavori coi colori?
Io racconto tantissimo tramite i colori. Li uso talmente tanto come strumento narrativo che, al contrario di molti miei colleghi, faccio gli storyboard già a colori. Metto già in fase preparatoria degli accenni per dare l’importanza narrativa. Nel caso di Ti Chiamo Domani il colore, oltre a sottolineare gli stati emotivi, serve a scandire le diverse fasi temporali. Il libro è fatto di flashback: c’è un presente e un tempo passato nei ricordi e nei racconti di Chiara. I flashback sono prevalentemente in giallo, mentre il tempo presente ha sempre una dominante azzurra. Il giallo e l’azzurro erano già presenti negli storyboard, quasi completamente.
La scena di violenza, invece, è quasi in bianco e nero…
Sì, è un blu molto scuro. In fase di storyboard il libro era quasi tutto disegnato in questa maniera, con solo l’aggiunta dei colori, come dicevo. Semplicemente, i flashback erano disegnati con ocra e il resto era azzurro disegnato col blu. Quando è arrivata quella scena, sapevo che volevo che fosse una notte cupa e quindi l’ho disegnata in blu scuro. Quando sono andata a fare i definitivi ho capito che quella scena doveva rimanere esattamente come l’avevo disegnata in fase di storyboard, solo un po’ ripulita. Ma doveva rimanere in quella linearità lì, perché si doveva capire che era una cosa che rimaneva in una maniera diversa.
Domanda di rito: Cos’è per te il Sale della Vita? Domanda difficilissima, lo sappiamo!
Vi rispondo facilmente, invece! Per me il sale della vita sono le storie. Quelle che ci possiamo raccontare, che possiamo leggere, che possiamo condividere.