Philharmonics | Agnes Obel
In copertina, il viso dalla carnagione eterea puntellata da qualche efelide ed incorniciato da una chioma biondo rame, lascia immediatamente intuire la singolarità di un disco che dichiara apertamente “Eccomi. Sono vero. Sono diverso.”
Con il suo sguardo sincero e penetrante, Agnes Obel sembra vedere dentro chiunque si avvicini alla sua creazione e al tempo stesso pare voler offrire, in una sorta di reciproco scambio, una breccia dentro sé attraverso quegli occhi color d’acqua limpida.
I tratti somatici tradiscono le sue origini scandinave: nata a Copenhagen, ancora bambina si avvicina al mondo della musica – in particolare classica – inizia subito a suonare il pianoforte e più avanti a comporre. Presto si accorge che la scuola non fa per lei, e dopo alcune esperienze musicali capisce che lo stesso vale per il rock e per il suo Paese; decide di trasferirsi a Berlino, dove ritiene di poter coltivare al meglio le proprie aspirazioni artistiche. È proprio nella città tedesca dalla più fervente attività culturale che la giovane danese compone il suo primo lavoro, Philharmonics, pubblicato poi nel 2010 da un’etichetta indipendente. La PIAS – l’acronimo sta Play It Again Sam e tra gli artisti della label figurano anche gli Editors – infatti, scopre la Obel grazie ad uno spot pubblicitario nazionale in cui compare un suo pezzo, scovato come da miglior scenario musicale 2.0 direttamente dal MySpace dell’allora sconosciuta musicista, e le propone di firmare un contratto.
La fiducia e la libertà accordatele sono ampie: è l’artista esordiente che scrive, compone e produce l’intero album – ad eccezione della nona traccia che ripropone un pezzo di John Cale – ma la maturità artistica della trentenne confermerà che sono state ben riposte. L’intero disco si struttura sulle note del pianoforte suonato da Agnes, da lei stessa definito vera e propria “voce”, e su quelle di un violoncello (le cui parti sono eseguite da Klemt, Labbow e Müller, tutte donne) spesso – ma non sempre – accompagnate dalla voce vera e propria della cantautrice.
L’apertura con la strumentale Falling, Catching cattura (come da titolo) immediatamente l’attenzione, e ancor di più se si tratta di un orecchio restio a confrontarsi con il suono di un pianoforte “in purezza”, la cui melodia non si presenta qui complessa o artificiosa, ma richiama invece il suono di un prezioso carillon giocattolo aperto per sbaglio. Questa breve traccia trasporta in un mondo solo apparentemente infantile, in cui una voce bassa, quasi monotòna, apre una traccia inaspettatamente cupa. Riverside colpisce a fondo con un ritratto di una solitudine senza sconti, virtù e condanna di chi vede “How everything is torn in the river deep”; ma è con l’ultima strofa che si intuisce la capacità di mettersi a nudo di un’autrice che potrebbe altrimenti non essere nient’altro di più che una bella e brava pianista in chiave moderna, quando canta: “I walk to the borders on my own / To fall in the water just like a stone / Chilled to the marrow in them bones / Why do I go here all alone”. Con la sua atmosfera quasi bucolica, Brother Sparrow riporta ad una dimensione melodicamente più leggera e trasognata. Racconta di un’attesa-assenza in cui traspare la tristezza delicata di una donna che non si fatica a visualizzare affacciata ad una finestra, con gli occhi rivolti altrove e dentro di sé (“From my window view / I know a colour blue / That can bite so very hard / The day apart”).
In Just So (la traccia scelta per lo spot che le diede notorietà iniziale) il registro cambia ancora, e si respira un’aria di speranza quasi sussurrata in versi che incalzano infine a “brindare al sole, alle cose che non arrivano mai, al sorgere di un giorno”. Segue Beast, in cui vocalizzi quasi cantilenanti sono sorretti da piano e violoncello in un’armonia inevitabilmente accattivante. Rimanere stregati dalla seducente trama tesa dalla Obel è inevitabile qui, grazie anche al sapiente tratteggio testuale e melodico di immagini ed allusioni lasciate all’interpretazione personale dell’ascoltatore. Sono poi solo i due strumenti a mantenere magistralmente la scena nella successiva strumentale Louretta, mentre nella bellissima Avenue riappare l’angelica voce di Agnes. A parlare è una donna fortemente caparbia e saggia, che si interroga su cosa sia giusto e cosa sbagliato, o meglio, sul torto e sulla ragione; ma è con la title track, Philharmonics, che il disco raggiunge uno dei punti di maggior interesse. Quasi sottoposti ad un sortilegio, è impossibile non incantarsi all’ascolto di questo tetro waltzer in cui i silenzi pesano quanto, se non di più, delle parole. La Obel riesce poi nell’impresa, affatto banale, di reinterpretare un pezzo altrui; Close Watch, titolo ridotto rispetto all’originale I Keep A Close Watch di John Cale riesce perfettamente nell’intento di rendere omaggio ad un pezzo sicuramente peculiare, rivisitandolo in una chiave tanto personale da poterne percepire il valore sentimentale per l’artista che la esegue. L’epilogo offerto da On Powdered Ground è ancora una volta estremamente allegorico, nel suo descrivere la neve che cadendo impolvera il suolo e noi tutti; la meravigliosa outro strumentale funge da perfetta coda finale di un disco che non avrebbe potuto finire altrimenti troncato.
Nel complesso, Philharmonics è un album che sicuramente non piacerà a tutti – e, anzi, non cerca in nessun modo di farlo – ma che non deve spaventare nessuno. Potrebbe essere definito classico, per il ruolo centrale assegnato e limitato a strumenti come il pianoforte ed il violoncello, e da camera per la purezza dell’esecuzione; potrebbe essere definito folk, per l’eco della musica popolare che vi risuona richiamando alla mente cantautori come Simon & Garfunkel per le melodie (Parsley, Sage, Rosemary and Thyme) e Joni Mitchell per la profonda intimità dei testi (Blue); potrebbe essere definito indie per il semplice fatto che è stato distribuito da un’etichetta indipendente e che probabilmente avrà un target di estimatori limitato.
Tanto nel panorama dell’industria musicale quanto in quello della nostra società è impossibile non notare due prototipi di donne: le une, ridotte – da altri, da se stesse, o entrambe le cose – a splendidi involucri; le altre sono donne che hanno deciso di valorizzare il loro contenuto rispetto al contenente, decidendo che per farlo avrebbero dovuto essere meno romantiche, meno sensibili, meno permalose, meno fragili, meno impulsive, meno sognatrici, meno donne. Credo che l’onestà sia il punto forte del lavoro eclettico di un’artista che riesce ad incarnare un’immagine femminile troppo poco presente: Agnes Obel appare come una donna completa – leggera e seducente (Falling, Catching; Beast), riflessiva e cupa (Riverside), speranzosa, mai vittimista (Brother Sparrow), superba (Avenue), triste e romantica (Close Watch) – algida solo ad uno sguardo superficiale, ma sempre composta nelle sue emozioni. È l’immagine di una donna che non è né migliore né peggiore per attribuzione di genere, ma consapevolmente, necessariamente ed inevitabilmente diversa.
Postilla: L’album recensito è finora l’unico all’attivo per l ‘artista, che ha dichiarato a gennaio di averne uno nuovo in probabile uscita in questo 2013.
Chiara Marchisotti
titolo | Philharmonics
anno | 2010
artista | Agnes Obel
genere | Folk
durata | 39:49
etichetta | PIAS
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