Quando l’Occidente fu vicino all’Iran… almeno in Poesia
Ci fu un tempo in cui Johann Wolfgang Von Goethe chiamò gli intellettuali occidentali a riconoscere la Persia quale patria di alcuni fra i poeti più sublimi del mondo.
«Chi vuol comprendere la poesia / deve andare al Paese della poesia; / chi vuol comprendere il poeta / deve andare al Paese del poeta», scriveva.
A tale appello, all’inizio dell’Ottocento, diede risposta uno stuolo di spiriti eccezionali che originò il Rinascimento Orientale, cui corrispose nelle arti figurative una contemporanea corrente orientalista. Considerammo l’Oriente come lo spazio privilegiato della poesia, dell’amore, l’universo dove l’uomo autentico poteva coniugare serenamente i piaceri della vita e le delizie dello spirito. Circa la ragione di questa attrazione verso la cultura iraniana, ci si affidò alle affinità elettive di goethiana memoria, secondo cui l‘homo persicus sarebbe più vicino di quello greco e romano allo spirito europeo:
«Soddisfa il nostro spirito (saggezza), i nostri sensi (voluttà), la nostra immaginazione (poesia), la nostra anima (spiritualità e sublime)».
L’anima iraniana condenserebbe corpo e spirito, delicatezza e forza, eroismo e saggezza, aspirazione alla felicità e rassegnazione al destino, senso del piacere e senso dell’immaginazione creatrice.
Antinomie che in passato hanno affascinato l’uomo occidentale e che hanno la loro massima espressione nella poesia. Antinomie che si intuiscono ancora nell’asprezza dei paesaggi e nella raffinatezza delle creazioni artistiche, che si colgono in una certa mestizia degli abitanti e nella sincerità della loro cortesia: i lunghi anni di isolamento dal resto del mondo hanno reso l’Iran un territorio ancora largamente inesplorato per chi non si arrenda davanti a una cortina e abbia brama di conoscere quello che c’è dall’altra parte.
A Shiraz quotidianamente si versano vere lacrime sulla tomba del poeta Hafez, avvolta dall’abbraccio di giovani innamorati. Oppure ad Hamadan, nel mausoleo del mistico Baba Thaer, ci si riunisce per recitare i propri versi. Moltissimi tra gli iraniani imparano a memoria uno stupefacente numero di liriche dei loro grandi poeti, entrate poi negli idiomi, nella musica, nel vero tessuto culturale del paese. Sembra che, perfino tra i nomadi analfabeti di lingua turca, sia comune recitare poesie di cui non si comprende il significato.
Occidente, abbandoniamoci alla poesia. Dimentichiamoci di tutto il resto.
“Poi che null’altro che vacuo vento ci resta d’ogni cosa che esiste,
Poi che difetto e sconfitta colgono al fine ogni cosa,
Considera bene: ogni cosa che è, è in realtà nulla;
Medita bene: ogni cosa che è nulla, è in realtà tutto.”
“O cuore che non ti prenda dolore di questo mondo consunto:
Tu non sei cosa vana, di vani dolori non prenderti cura.
Poiché ciò che è stato è passato, e ciò che non è non è ancora,
Vivi felice, e non ti afferri tristezza di quel che non è, non è stato.”
(Omar Khayyam, 1048-1131, Quartine, Traduzione Italiana Alessandro Bausani, Einaudi)