Leonora Carrington, una sognatrice libera e beffarda
Si dice che Magritte, Van Gogh, Gauguin, Moreau e molti altri artisti dipingessero i loro sogni: molti di loro lasciavano sul comodino l’occorrente per disegnare per essere pronti a lavorare appena svegli, appena ritornati dal mondo del sogno.
Non mi viene difficile fantasticare sull’ipotesi che anche Leonora Carrington facesse lo stesso per dipingere i suoi quadri o per scrivere i suoi racconti e che anche di lei si potrebbe dire ciò che una volta disse Picasso a proposito di Chagall: “Quando dipinge, non si capisce se è sveglio o dorme. Da qualche parte nella sua testa dev’esserci un angelo.”
Ho sempre invidiato chi sogna molto: lo considero un vero e proprio talento, una specie di abilità, la manifestazione di una speciale forza immaginativa.
I miei sogni sono di fattura semplice e ordinaria: un impasto che lievita; una vecchia che spazza con premura l’uscio di casa; un cane che corre lungo un rettifilo; o il viavai sfuocato della gente ai tavolini dei bar. Mi rivedo in Aleksandra, la figlia maggiore del generale Epančin ne L’idiota di Dostoevskij, che a causa della vacuità dei suoi sogni litigava spesso con la madre, Lizaveta Prokof’evna.
Benché sia affezionata a questi quadretti privi di trama, e dopotutto riconoscente per il sonno celeste che mi concedono, mi piacerebbe di tanto in tanto sognare un gran bel sogno: uno di quelli sudati, labirintici, abrasivi.
Uno di quei sogni oscuri ed enigmatici, disseminati di simboli e ostacoli, assurdi ma razionalissimi fin tanto che ci stai dentro, fin tanto che non ti svegli di colpo sempre un attimo prima di aver compreso il senso di quel mistero che andavi inseguendo.
La Storia dell’arte, lo sappiamo, è un sentiero tracciato dagli uomini. I nomi femminili sono ancora reperti che vengono a galla, imprevisti sfuggiti alla ferrea regola spermatica, un’ora d’aria di libertà strappata alla Storia maschile.
Artemisia, Berthe, Tamara, Frida. E poi Carol Rama, Georgia O’Keeffe, Natal’ja Gončarova, Sonia Delaunay, Remedios Varo: per citare le sole che un poco conosco e far danno a tutte le altre, ancora lontane.
Per la sua straordinaria, spettrale, erotica capacità di rappresentare il mondo del sogno, un posto speciale tra tutte loro spetta a Leonora Carrington: pittrice e scrittrice ribelle nata in Inghilterra nel 1917, cresciuta artisticamente nel gruppo di Max Ernst e dei surrealisti e, dopo la seconda guerra mondiale, trasferitasi a vivere in Messico.
È difficile non pensare a lei come ad una storia di emancipazione femminile: da quando l’antica Grecia ha concepito Pandora, la prima donna, come punizione per gli uomini dovuta per il crimine di Prometeo (e solo un po’ più lieve sorte toccò ad Eva, nata da una costola di Adamo…), da quel momento la storia personale di ciascuna donna libera è inevitabilmente una storia universale di emancipazione.
E nelle opere di Leonora, in particolare, la trasgressione, la ribellione, il rifiuto dei costumi e dei vincoli spersonalizzanti delle società conformiste sono temi ricorrenti e incapaci di ammansirsi.
Leonora, pittrice e scrittrice. Esattamente come i suoi quadri, in un processo fluido e continuo in cui pittura e scrittura evolvono di pari passo, anche i suoi racconti – in particolare le storie raccolte in La debuttante – sono enigmi beffardi sempre sul filo tra il sogno e l’incubo, tra innocenza e humor nero.
Iene parlanti, giardini onirici, cavalli dai responsi sibillini, dimore aristocratiche e spettrali, balli e banchetti lugubri: ogni racconto è un sogno da sonnambuli sempre pronto a precipitare nell’incubo; è una favola onirica beffarda e sinistra, che non diventa mai vero e proprio orrore e mai pretende di essere pagata con la moneta dello spavento.
Piuttosto, i personaggi femminili di Leonora Carrington sono selvatici e sensuali e dialogano con la morte e con la solitudine come se fossero compagne di un gioco infantile.
In loro convivono tratti umani e tratti animali e non alberga alcuna logica né razionalità ma solo la più totale libertà: il loro mondo, il mondo dell’incubo e del sogno, è liberatorio giocoso spettrale e fiabesco.
In ciascuna delle storie di Leonora si ritrovano, variamente combinate tra loro, alcune componenti ricorrenti: all’odore della morte, della putrefazione e del sangue si accompagna sempre l’irresistibile erotismo delle loro creature selvagge; all’innocenza e al candore di ciò che è incorrotto e puro si affianca sempre un ghigno beffardo, ironico, che si prende gioco di tutto.
Leonora Carrington ha sempre rifiutato di essere definita una surrealista così come ha sempre rifiutato qualsiasi categorizzazione: scorrendo le immagini dei suoi quadri o ripensando ai suoi racconti non si può resistere alla tentazione di rintracciare i simboli, i significati nascosti, le allegorie che immaginiamo abbia seminato intenzionalmente come mollichine di pane, proprio come non possiamo non interrogarci al risveglio sul senso di un sogno che ci abbia irretiti o profondamente turbati.
Eppure – nonostante tutte le congetture che potremmo formulare sulla presenza nei suoi racconti, ad esempio, dei cavalli o dei personaggi dai lunghissimi capelli o del numero sette, e così via – il messaggio più impressionante della sua arte resta questo: la totale assenza di vincoli costrittivi, di razionalità, di schemi logici o morali predeterminati che possiamo permetterci nel mondo libero dei sogni.
Ogni identità personale nei suoi racconti è in continua trasformazione e costruzione ed ha il diritto di esserlo liberamente, sfrenatamente. Niente la dirige né la definisce: non la società, non la realtà.
Titolo | La debuttante
Autrice | Leonora Carrington
Casa editrice | Adelphi
Anno | 2018