Giovanissimi | I “ragazzi di vita” di Alessio Forgione
“Be’, adesso sapevo che avevo tutta la vita davanti, ma non me ne sarei certo fatto una malattia”
— La vita davanti a sé, Romain Gary
“Cercò di fare una finezza colpendo il pallone di tacco, ma fece un liscio, e il pallone rotolò lontano verso il Riccetto e gli altri che se ne stavano sbragati sull’erba zozza”
— Ragazzi di vita, Pier Paolo Pasolini
Il ricordo di ogni adolescenza è una reliquia: sebbene esso viva in molti di noi come una malformazione, possiamo dire a posteriori che mai come in quegli anni ci siamo sentiti vivi, una vera potenza della vita.
L’adolescenza è un luogo tossico e sacro insieme, è una belva affamata e braccata: se i bambini sono le nostre divinità, perfetti e sovrani del loro iperuranio, i nostri ragazzi sono invece dèi incarnati in piccoli umani, scesi sulla terra per compiere imprese gloriose.
Se la vita fosse sempre giusta, ogni adolescente sarebbe la miccia di un fuoco d’artificio; un seme già pronto a rompere la crosta dura della terra e a crescere verso il cielo; un corridore al blocco di partenza pronto a lanciarsi verso il record del mondo.
Ma la vita non è sempre giusta e le sue promesse sono spesso assegni scoperti.
Chiunque abbia già letto Ragazzi di vita o Una vita violenta di Pasolini ha sperimentato, per il tramite della letteratura se non già sulla propria pelle, l’inferno e l’abbandono a cui possono essere destinati i giovanissimi.
Destinati non è forse il termine adatto: perché i ragazzi di Pasolini sembrano attraversare la vita come fantasmi senza domande, come cagnolini randagi, di cui nessun destino o volontà superiore, nemmeno matrigna o ostile, sembra interessarsi.
Non è mica detto che la nostra, di vita, sia poi tanto meglio: è più comoda, ma forse addirittura meno intensa, ancora meno libera, più artefatta. Non c’è giudizio morale in Pasolini: questa è la magia, il grande potere della sua scrittura cristiana.
L’inferno, nostro o loro che sia, è costruito secondo me su tre specie di pilastri: l’impossibilità di riscatto, l’impossibilità di istruzione e l’impossibilità di pensarsi al futuro.
Tre impossibilità ancora più violente, più ingiuste se colpiscono delle giovani vite, che non dovrebbero fare altro che cominciare a fiorire.
Come ha scritto Alessandro Leogrande nella prefazione all’edizione albanese di Ragazzi di vita, quello raccontato da Pasolini è «l’esasperato vitalismo delle borgate» della Roma popolare del secondo dopoguerra, della Roma dei margini: «un vitalismo allo stesso tempo commuovente (perché pieno di pietà) e violento (perché intriso di ferocia)»: un universo che sarà destinato a scomparire, colonizzato da quello che Pasolini chiamerà il «nuovo fascismo dell’omologazione consumista».
Eppure questa non è la fine: dopo aver giocato le tre carte infernali, Pasolini cala di tanto in tanto la carta del bene.
Improvvisi, inutili, sacri momenti di bene, cioè di bellezza, esplodono sulla pagina, nelle vite dei suoi ragazzi ferini e nella nostra: un gesto; un certo paesaggio; la tenerezza con cui si lascia andare la vita, come una cosa bella; una certa luce della luna che illumina lo sporco del mondo.
Proprio su quel fondo del mondo, nostro e loro, Pasolini ci mostra il bene possibile, forse addirittura certo e più forte: non c’è nessuna vita che possa essere davvero annientata dalla miseria, che sia troppo distante dal bene per non essere bella e santa.
Basta un squarcio, anche se si richiude subito.
“Il Riccetto li aspettava seduto sull’erba sporca della riva, con la rondine tra le mani. «E che l’hai sarvata a ffà», gli disse Marcello, «era così bello vedella che se moriva!» Il Riccetto non gli rispose subito. «È tutta fracica», disse dopo un po’, «aspettamo che s’asciughi!» Ci volle poco perché s’asciugasse: dopo cinque minuti era là che rivolava tra le compagne, sopra il Tevere, e il Riccetto ormai non la distingueva più dalle altre”
Al contrario dei ragazzi di Pasolini, che brulicano e scorrazzano per le borgate romane in un eterno presente circolare, il protagonista di Giovanissimi di Alessio Forgione (NN Editore, 2020) riesce, anche se a tentoni, ad immaginarsi al futuro.
Marocco ha quattordici anni, vive con il padre a Soccavo, un quartiere popolare di Napoli, legge le riviste che parlano di cose paranormali, tipo i fantasmi e Dylan Dog. Della scuola si interessa poco o niente e trascorre le giornate con il gruppo dei soliti amici: Gioiello, Fusco, Petrone e, naturalmente, Lunno, che sta a Marocco come Lucignolo sta a Pinocchio.
Gli piace giocare a calcio e vuole diventare un calciatore professionista: anche se non arriva mai ad avere il “sangue agli occhi” e una determinazione incendiaria per ciò che sta facendo, per Marocco tutto sembra comunque ruotare attorno ad allenamenti e trasferte, sono i Giovanissimi Regionali della Pro Calcio Napoli. La luce di un fiammifero, che resta accesa.
“Il Mister cercò di rassicurarci dicendo che dovevamo stare tranquilli, che non era la sola possibilità che avevamo.
«Siete giovanissimi» disse e per come parlò sembrava una cosa positiva”
Rispetto ai romanzi di Pasolini, che per me rappresentano il “mito classico” di cui è figlia ogni storia di adolescenza vulnerata, ogni storia di passaggio dall’età dell’innocenza al mondo degli adulti, in Forgione sembra esserci un po’ più di luce: grazie al calcio ci sono alcuni timidi verbi declinati al futuro; c’è Serena, il primo amore, acerbo e dirompente come tutti i primi amori; e c’è un padre che, da solo e pur assente per la fatica del lavoro, ce la mette tutta per garantire al figlio di arrivarci davvero, a quel futuro, sia con la scuola sia con il calcio.
Eppure, anche queste vite, come quelle dei ragazzi di Pasolini, sembrano amputate. L’età adulta, mefitica e stanca, già minaccia la loro innocenza.
Nonostante il calcio e una parvenza di scuola, cioè possibilità di riscatto, e non da poco, a portata di mano, anche sui giovanissimi di Forgione il cielo è sempre troppo basso: vite che girano in tondo, girano a vuoto, annoiate e rabbiose, si arrabbattano con lo spaccio per comprare un motorino usato e tutti i desideri, la fame, i sogni finiscono lì.
Rondinini che, anziché prepararsi al grande volo, saltellano smarriti sul posto, dimentichi della loro natura.
Dov’è la crepa? Che cosa è successo? Di chi è la colpa?
“Giravo per casa, senza sapere cosa fare. Palleggiavo in soggiorno, disposi i miei Dylan Dog e tutti i giornaletti seguendo la data d’uscita. Mi sembrava di impazzire e avrei voluto prendere a testate i muri fino a farli cadere. Non per scappare ma per rompermi la testa. Mi sembrò di incontrare dei vuoti e che quei vuoti non fossero altro che le strade che percorrevo. Pensai che quel che vedevo, tutto quello su cui posavo gli occhi, era la vita che non mi apparteneva”
Alessio Forgione ha il talento — che ha mostrato sia in Giovanissimi sia in Napoli mon amour (NN Editore, 2018), che vi consiglio di leggere in quest’ordine… — di servirsi della scrittura senza alcun artificio: anche in lui, come in Pasolini, manca qualsiasi tipo di giudizio o di intervento morale, nonostante serpeggi un’amarezza di fondo che vi si attacca ai polmoni.
Le sue storie non sembrano romanzi scritti da qualcuno un certo giorno, ad un certo tavolo, sotto una certa lampada, davanti ad un certo pc, ma racconti orali a perdifiato di qualcuno che vi sia seduto accanto. È direttamente una voce a parlarvi, senza farvi accorgere della mediazione della parola scritta: bisogna essere degli stregoni per riuscirci.
Se Giovanissimi di Forgione è meno lirico di Ragazzi di vita; meno ironico e dolce di Scheletri di Zerocalcare; meno violento di Bastogne di Enrico Brizzi; meno idealista di Divorare il cielo, non significa che di tutti questi meno ne faccia un difetto: sembra, piuttosto, che se ne stia al centro, al centro esatto di questo mondo, perfettamente in equilibrio nel suo centro di gravità.
La verità di Forgione non ha bisogno di troppe parole, anzi: sembra aver trovato una formula chimica esatta per cui occorrono quelle semplici parole scelte, solo quelle, non una di più. Si potrebbe dire che Giovanissimi sia un romanzo perfetto nella sua essenzialità.
Il gesto di Forgione è come un lancio olimpico di un giavellotto: un gesto semplice all’apparenza, pulito, che deve tenere insieme un’infinità di movimenti complessi e non lasciar trasparire lo sforzo che ne minerebbe l’immagine di naturalezza.
La domanda da porsi è questa: dove andrà a cadere, come andrà a finire? Riuscirà a squarciare il cielo?
“Siamo stanchi di diventare giovani seri,
o contenti per forza, o criminali o nevrotici;
vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare qualcosa dalla vita, chiedere, ignorare.
Non vogliamo essere subito già così sicuri.
Non vogliamo essere subito già così senza sogni. ”
(P. P. Pasolini, da Lettere Luterane, Garzanti, 1976)
Titolo | Giovanissimi
Autore | Alessio Forgione
Casa editrice | NN editore
Anno | 2020