The Lighthouse. La solitudine è una sposa insopportabile

The Lighthouse. La solitudine è una sposa insopportabile

Regia: Robert Eggers | Anno: 2019 | Durata: 110 minuti

Sapete cos’è la cabin fever? È una sensazione di disagio che può insorgere a seguito di permanenze prolungate in contesti isolati in compagnia di poche persone, caratterizzata da forte irascibilità, paranoia e generale malessere.

Sarà che per lavoro mi sono spesso trovato in tali situazioni ma, pur non essendo minimamente paragonabili ad un faro in mezzo all’oceano, un po’ la conosco e più di una volta l’ho vista svilupparsi in amici e colleghi. “La solitudine è un’amante deliziosa, ma una sposa insopportabile” diceva Ralph Emerson a John Muir per cercare di dissuaderlo dal desiderio di andarsene a vivere in eremitaggio sulla Sierra Nevada. E aveva ragione.

Ma se da un lato la cabin fever è qualcosa di reale (spesso esacerbata dall’abuso di alcol che in questi contesti diventa più o meno di prassi), dall’altro ci sono anche le decine di suggestioni psico-emotive che tali luoghi si portano dietro e che fungono da terreno fertile per farci sentire “fuori posto”.

Insomma: quando ci troviamo di notte tra gli alberi, quanto di ciò che avvertiamo è vero e quanto immaginato? E qualora fosse immaginato, basterebbe questo a renderlo, di fatto, meno terribile?

Il sole di Riccione

Al suo secondo film, Robert Eggers si conferma essere appassionato di questo dualismo tra la realtà e la sensazione. Dopo essersene occupato nel buio del bosco con The Witch, il giovane regista canadese torna sull’argomento esplorando il mare: non-luogo dispensatore di vita e morte, specchio della nostra anima, che da sempre affascina e terrorizza l’umanità.

The Lighthouse si svolge interamente in un faro su uno scoglio a largo del New England. Qui, i due guardiani si troveranno a condividere spazi, tempi ed emozioni: Thomas (quel matto scoppiato di Willem Dafoe) – veterano del mestiere – beve come una spugna, ciancica di maledizioni e ogni sera si reca sulla cima del faro come se stesse andando ad un appuntamento romantico, mentre Ephraim (il mio nuovo bff, Robert Pattinson) – forse inseguito dagli spettri di un passato non troppo cristallino – ha strane visioni nell’acqua e litiga con i gabbiani. In questo contesto, i due si troveranno a sprofondare in un maelstrom sempre più vorticoso di malessere, disagio e follia.

Pattinson offre di nuovo un’ottima prova attoriale, confermandosi un ragazzo talentuoso con tanta voglia di scrollarsi il fantasma di Twilight dalle spalle. Tuttavia il suo personaggio gli impone di giocare più di rimessa e può in effetti venire oscurato da quel gigante di Dafoe che, complici alcune delle scene più potenti del film (vogliamo parlare di QUEL monologo?), ci regala un’interpretazione sinceramente strabiliante. Oscar 2020, anyone?

Oltre loro due, nel cast compaiono solo la modella Valeriia Karaman (occhi enormi come quelli di Anya Taylor-Joy, già musa del regista in The Witch) e un vecchio gabbiano guercio.

Oscar no-pro ad ali basse

Il rigore che questo regista mette nella costruzione filologica del suo mondo è encomiabile. Come già accadeva in The Witch, lessico e sintassi dei dialoghi sono basati su testi dell’epoca (nello specifico i diari di Melville, Stevenson e Sarah Orne Jewett) mentre le scenografie sono ricreate il più fedelmente possibile utilizzando materiali accurati (il faro in scala 1:1, la lente Fresnel costruita appositamente per le riprese, i vestiti cuciti a mano con materiali dell’epoca…ha addirittura interpellato un esperto di squali per una questione di anatomia genitale ittica) così come vero è il gabbiano a cui viene chiesto di recitare come ad un qualunque altro attore.

Eggers si conferma un profondo conoscitore del folklore e dei miti del New England e dell’America in generale. Qui nello specifico attinge al corpus di leggende marinaresche sviluppatosi nell’Atlantico tra XVII e XIX secolo: kraken, sirene, Davy Jones e compagnia cantante fanno tutti la loro comparsa in questa pellicola. Ma non aspettatevi l’ennesimo Pirati dei Caraibi! Il film pesca piuttosto dalle atmosfere di certi racconti brevi e poesie di Edgar A. Poe (ad esempio a Manoscritto trovato in una bottiglia) e potrebbe tranquillamente essere un sequel apocrifo di Le avventure di Gordon Pym, uno spin-off de La ballata del vecchio marinaio di Coleridge, una rivisitazione del mito di Prometeo o un remake di Shining. Di nuovo come in The Witch, i livelli interpretativi sono molteplici e Eggers non si sbilancia (quasi) mai nell’indicarci quello che preferisce.

Tra le altre fonti d’ispirazione troviamo poi Lovecraft, Verne, Carpenter, Algeron Blackwood e…i Simpson: La montagna della pazzia, dodicesima puntata dell’ottava stagione.

“Ti ucciderò, museo rigonfio d’ipocrisia!”…davvero, ma come si fa a non amare Monty Burns?

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Parliamo ore delle peculiarità tecniche di questo film: il bianco/nero e il rapporto 1:1,19 (praticamente quello di una polaroid). Sono scelte tanto originali quanto rischiose che possono trasformare un regista alle prime armi in un hipster che si appella al passato solo perché non ha i mezzi per affrontare il presente. Voglio dire che se oggi, anno domini 2019, usi delle tecniche che il resto del mondo ha abbandonato 80 anni fa, a meno che non ti chiami Tarantino, devi impegnarti il doppio per dimostrare che questa tua scelta ha avuto un senso che vada oltre l’estro creativo, perché sennò poi all’esame ti faccio il mazzo e ti insegno io a fare lo splendido.

E come se la cava Eggers da questo punto di vista? Ottimamente, trenta e lode e bacio accademico! Oltre allo (scontato) senso d’antico a cui queste tecniche rimandano, il B/N serve a valorizzare una fotografia che accentua molto luci e ombre mentre il rapporto 1:1,19 trasmette un senso di claustrofobia che ben si sposa con le atmosfere del film. All’estremo opposto della scelta di Tarantino di spalmare il suo film sulla pellicola più larga possibile per trasformare l’emporio di Minnie in un palcoscenico, queste proporzioni assurdamente strette e l’uso di primi piani ravvicinatissimi danno quasi l’impressione che si stia sbirciando la scena da uno di quei buchi (genitali o di serratura poco importa) in cui il nostro protagonista cerca strenuamente di entrare.

Anche il comparto sonoro aiuta ad aumentare il disagio. Lo stridio incessante dei gabbiani e soprattutto il monotono rombo della sirena del faro si incuneano nella mente dello spettatore come una sorta di goccia cinese che col suo ripetitivo ticchettio fora anche la roccia più dura.

Se siete di quelli che richiedono ad un film di essere chiaro in quel che dice, odierete The Lighthouse.

Che succede veramente su quest’isola? I due protagonisti si sono lasciati suggestionare dalle atmosfere o forse davvero c’è qualcosa di sinistro che incombe su quello scoglio? Cosa si cela nel luccichio della lanterna?

Sono tutte domande la cui risposta è lasciata allo spettatore. Non ce n’è una giusta e una sbagliata: solo una vera e una reale.

Che film!

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