When they see us. Il buio a Central Park
La notte del 19 aprile 1989 una giovane donna viene aggredita e stuprata a Central Park, mentre fa jogging dalla East Drive alla West Drive come tutte le sere dopo il lavoro. Quello che sembra un episodio come tanti di violenza sessuale e aggressione, sin dalle ore successive alla tragedia entra nell’amplificatore mediatico trasformandosi nel celebre “caso della jogger di Central Park”, nonché esempio di malagiustizia negli Stati Uniti. A essere ingiustamente accusati dello stupro, infatti, sono cinque ragazzi afroamericani e ispanici che si trovavano nel parco e le cui vite saranno irrimediabilmente cannibalizzate e violate da un sistema (mediatico e giudiziario) corrotto dalle sue fondamenta.
E qui, a trent’anni dagli avvenimenti e diciassette dalla revoca delle condanne, interviene Ava DuVernay. Chi ha visto il suo documentario Netflix 13th sa che con la regista di Los Angeles non si scherza. La nuova miniserie da lei firmata, When They See Us (sempre una produzione Netflix), ripercorre la vicenda dei “Central Park five”, in una delicata operazione di restituzione di memoria e di riabilitazione della storia che ha la forza di uno schiaffo in pieno viso.
Nell’arco di quattro puntate, DuVernay mostra con determinazione militante la storia di Kevin Richardson, Antron McCray, Yusef Salaam, Korey Wise e Raymond Santana. Sono solo cinque i minuti concessi nella prima puntata al racconto dei momenti immediatamente precedenti al crollo, come sospesi in un’anticipazione dolente dell’impatto rovinoso che quella notte del 1989 ha avuto sulle vite di cinque teenager qualunque, scanzonati e spensierati per le strade di Harlem, inghiottiti poi da una notte blu. La macchina da presa è ferma e sicura, puntata come un’arma attraverso cui restituire spazio alla verità, a partire dalla ricostruzione delle confessioni estorte ai ragazzi durante trenta ore di interrogatori in condizioni incostituzionali, per arrivare al processo mediatico e alla detenzione nelle puntate centrali.
La quarta e ultima puntata determina il limite che la regista decide di superare nella descrizione di una violenza sistematica finalizzata all’annientamento dell’individuo, raccontando la durissima detenzione subita dal più grande dei ragazzi, Korey Wise, che all’epoca dei fatti aveva sedici anni e fu l’unico a scontare la pena in un carcere per adulti.
Scegliendo una forma narrativa piuttosto classica, guidata da un ritmo serrato e immortalata da una fotografia dai contrasti drammatici, quello che colpisce del lavoro della regista è l’attenzione nel disseminare dettagli che regalano profondità analitica alla sua opera, in grado di fornire una spiegazione storico-sociologica dei fenomeni alla base di quello che il New York Times definì “uno dei crimini di più ampia risonanza degli anni ottanta”.
Come ampiamente argomentato nel documentario 13th, il carcere è il luogo per eccellenza attraverso cui si è riprodotto il sistema di segregazione razziale a partire dall’abolizione della schiavitù. La subordinazione in cui si trovano i personaggi di When They See Us, tanto le vittime quanto le famiglie, è prima di tutto economica: le madri dei ragazzi combattono ostinate contro un sistema ingiusto, senza potersi permettere di andare a trovare i figli imprigionati in strutture lontane, faticando a pagare le telefonate con il carcere e le parcelle degli avvocati difensori.
La scrittura della DuVernay è precisa nel voler individuare gli snodi più controversi che condannarono i cinque ragazzi alla pubblica gogna portando alle accuse infondate. When They See Us infatti presenta una preziosa riflessione sul linguaggio, tanto mediatico quanto istituzionale, e sul ruolo che ebbe nella vicenda. L’elegantissima e affilata penna della scrittrice Joan Didion all’epoca dei fatti affrontò la questione nei suoi Sentimental Journeys, focalizzandosi sulla narrazione che contribuì a distorcere la verità a partire dalle pagine dei giornali. Lo scalpore del caso fu infatti costruito su misura da una descrizione quasi manichea (da sempre strumentalizzata nella storia del razzismo americano): da un lato una giovane donna bianca, di ventinove anni, brillante e di successo che lavora per l’alta finanza e vive nel quartiere degli yuppies, dall’altro lato un gruppo di adolescenti scatenati, aggressivi e violenti che seminano paura nella città, per giunta neri.
La Didion sottolinea che il caso di Central Park fu sfruttato per offrire una lezione morale, una storia esemplare capace di veicolare un concetto più alto, mentre nessun riflettore fu puntato sugli oltre 3000 casi di stupri registrati quell’anno, incluso quello di una donna di colore quasi decapitata a Fort Tryon Park solo una settimana dopo. Allo stesso modo, il linguaggio istituzionale utilizzato dal procuratore Linda Fairstein, interpretata nella serie da Felicity Huffman (nota alla recentissima cronaca come il volto del white privilege, neanche a farlo apposta), chiuse in una stretta morsa gli imputati, descritti come animali, interpretando come un termine brutale la parola “wilding” riportata durante gli interrogatori e trasformando uno slang giovanile e innocente nella prova definitiva di colpevolezza.
Nel tentativo di restituire giustizia “narrativa” e dignità ai cinque ragazzi coinvolti, DuVernay racconta in maniera magistrale la perdita dell’innocenza e il dolore della crescita di alcune vite rovinate senza rimedio. Come un respiro che irrora di ossigeno dopo un’apnea, le immagini curano quello che la giustizia ha trascurato, in una serie ad alto impatto emotivo sostenuta dalla recitazione eccezionale dei giovani protagonisti (si distingue Jharrel Jerome nel ruolo di Korey Wise, di cui coglie la fragilità quasi infantile in un’interpretazione premiata agli Emmy Awards).
L’amarezza per ciò che non è rimediabile si accompagna all’indignazione per un presente sempre uguale nella ripetizione del pregiudizio e della disuguaglianza. Non servono alla DuVernay artifici retorici o narrativi per gettare uno sguardo sull’attuale situazione politica americana, se basta mostrare di sfuggita il ruolo che Trump ebbe nella vicenda, quando pagò un’intera pagina di giornale per gridare a un ritorno alla pena di morte per i “Central Park five”.
D’altronde, le conseguenze che ha avuto la serie su chi era coinvolto nel caso dimostrano il potere del racconto e la forza di una voce che non teme di prendere posizione nella battaglia delle idee. Un paese sistematicamente strutturato sull’ingiustizia sociale, la segregazione razziale e lo sfruttamento capitalistico difficilmente riesce a redimersi (illuminanti in tal senso le pagine di Howard Zinn ne La storia del popolo americano edito da Il Saggiatore), e oltre la siepe c’è ancora il buio.
Titolo: When They See Us
Ideatore: Ava DuVernay
Regia: Ava DuVernay
Anno: 2019
Puntate: 4
Durata: 64′-88′