#GiveMe5 (Thom Yorke Edition) | Vol. 160
Non sono stato molte volte al Ferrara Sotto Le Stelle, lo ammetto; quantomeno, non quante avrei potuto. Si contano sulle dita di una mano, eppure ognuna mi ha lasciato un ricordo indelebile, quasi sempre ottimo: il circo rock’n’roll degli Eels, con un tizio della finta security che requisiva macchine fotografiche e spruzzava panna spray in bocca ai fortunati delle prime file; i Sonic Youth che suonavano troppo lenti Teen Age Riot, a dimostrazione che puoi provare nel tempo a restare sonico, ma ben difficilmente rimarrai giovane.
E poi: Jehnny Beth delle Savages, furiosa sulla transenna, a fissarmi negli occhi in un live che prometteva faville per il secondo disco (e invece poi no); gli LCD Soundsystem che giusto un’estate fa portavano in tour lo spettacolare American Dream e mi accompagnavano fuori da Piazza Castello con la più classica delle solitudini malinconiche indotte dal loro indie-dance-punk: “dove sono i miei amici questa notte?”
Giovedì scorso è toccato a Thom Yorke, che ha regalato a me e a qualche migliaio di persone stipate in piazza qualcosa di più di un concerto; qualcosa su cui, a distanza di qualche giorno, mi è ancora ben difficile avere una visione onnicomprensiva. Provo allora a ragionarci qui, ad alta voce.
NOTA: in fondo, poi, vi trovate una classica playlist SALT del lunedì con i cinque pezzi che mi hanno colpito di più in una serata interamente indimenticabile.
“Nella società alienante che ci fa da gabbia, Yorke cerca una via di fuga (forse utopica): non è solo amore, ma connessione umana, totalmente assente nella società meccanica in cui il protagonista si muove all’inizio. La musica e le coreografie seguono i mutamenti del protagonista […]. I movimenti si fanno più morbidi, non più brutalmente cadenzati, e per la prima volta la folla non balla come singoli separati, ma in coppia.”
Sono le 21.30 quando Thom Yorke e i due musicisti che l’accompagnano entrano in scena su uno stage con tre postazioni per laptop e diavolerie elettroniche varie, qualcosa tra dei Kraftwerk minimal e Flying Lotus; alle loro spalle, uno schermo convesso proietterà per tutte le due ore della setlist visual avvolgenti, di gran qualità.
Nel corso della serata avremo modo di passeggiare per la discografia solista del Nostro – il nuovissimo, splendido ANIMA; l’esordio The Eraser e il meno solido Tomorrow’s Modern Boxes; la notevole colonna sonora di Suspiria scritta per il remake di Luca Guadagnino – mentre Yorke, presenza spiritata al centro del palcoscenico, si alternerà tra macchine, basso e chitarra. E fin qui sembrerebbe solo un gran concerto, ma il punto della serata sta altrove.
Lo diceva bene Alessandro qui sopra, nel pezzo dedicato ad ANIMA, il corto di Paul Thomas Anderson lanciato su Netflix in parallelo all’album, che vede Yorke e la compagna Dajana Roncione inseguirsi e poi trovarsi, immersi in un alienante contesto urbano. Quella di Thom Yorke è infatti una catarsi umanista per il tramite dell’elettronica, un tentativo di stabilire una connessione con altri esseri umani avvalendosi di strumenti iper-tecnologici in un tempo in cui è proprio la tecnologia a contribuire all’allontanamento fra le persone. È quello che succede nell’album; è quello che succede in soli 15 minuti nel cortometraggio di Anderson; è quello che succede al concerto di Ferrara.
Si parte piano, con due brani da Tomorrow’s Modern Boxes, e la sensazione che un ascoltatore distratto potrebbe provare è quella della superstar rilassata che propone un set tutto sommato in chiave minore. Eppure si percepisce sulla pelle una strana sensazione di coinvolgimento fisico ed emotivo che inizia a far muovere testa e spalle e anche e piedi all’altezza del primo chorus memorabile (a memoria, direi Black Swan).
Yorke sorride spesso, storto come sempre; canta con il consueto falsetto da Paradiso perduto; e balla, dio se balla, calcando ogni centimetro dello stage come un folletto alieno, dimenticato qui da un’astronave madre che poi se n’è ritornata nella sua dimensione parallela.
A questo punto siamo dalle parti dell’insistente The Axe, dal nuovo disco, un brano che parla della promessa tradita delle nuove tecnologie (“tutto quel battere sui tasti, cosa importa? E dov’è l’amore che mi avevi promesso? Pensavo avessimo un patto“). È esattamente lì che mi accorgo che quello che vedo non è semplicemente un concerto: mi rendo conto, le mani intrecciate dietro al collo mentre ripeto come un mantra “I thought we had a deal“, che è come se lo schermo si fosse chiuso a cerchio intorno a noi che stiamo nella piazza.
Mi rendo conto che Yorke, implacabile pifferaio magico, ci ha tutti tratti nella sua tela con un armamentario di trucchi infallibili – leggete: ritornelli appiccicosi, groove ossessivi pure se downtempo, vocalità inafferrabile – e, ora che siamo esattamente dove voleva lui, può cercare di stabilire quella connessione che cercava, azzerando le distanze.
“Pensi che stiamo andando verso una qualche sorta di distopia? E che questo si senta nel disco?”
“Sì, decisamente si sente nel disco. Se ci stiamo davvero andando? Penso che siamo arrivati a questa crisi perché abbiamo permesso al nostro sistema sociale, e al modo in cui la società funziona, il modo in cui guarda ai confini economici, agli spostamenti, alle faccende politiche – abbiamo permesso a tutto questo di andare alla deriva. Ed è stata la mia generazione a farlo […]. Rifiutavamo di accettare che qualcosa di fondamentale dovesse cambiare nella nostra società e che la nostra traiettoria fosse insostenibile in un milione di modi diversi. Ecco perché trovo meraviglioso vedere mio figlio studiare scienze politiche e a quanto le giovani generazioni considerino importante scendere nelle strade e farsi coinvolgere, partecipare. Perché la nostra generazione si è arresa” (da un’intervista a Crack, questa)
Ed eccoci qui, in una terra che sembravamo aver dimenticato. Una terra in cui è l’Arte a farci riflettere sulla nostra condizione attuale e sulle nostre prospettive per il futuro – il ballare, a questo punto, è semplice conseguenza dell’aver accettato di partecipare: “free your mind and your ass will follow”, diceva George Clinton.
In una contemporaneità in cui il punto sono i luoghi virtuali in cui si svolge la discussione intorno alle cose più che le cose stesse e le rivoluzioni che possiamo aspettarci sembrano solo e banalmente tech, Thom Yorke trova il modo di ridarci un corpo, di riportarci in mezzo agli altri, di farci focalizzare di nuovo lo sguardo su ciò che conta davvero se vogliamo un vero progresso.
Passando per le allucinate visioni psichedeliche di Has Ended, approdiamo al vertice del set principale, proprio in chiusura. Prima arriva Traffic, opener di ANIMA e rant contro un’elite che costruisce muri e si rimpinza di “foie gras” (il modo in cui Thom recita quel verso, piegandosi innaturalmente di lato e fissandoci interrogativo col suo occhio-e-mezzo, disarticolato come una marionetta impazzita, resta per me uno degli istanti più iconici della serata), mentre qui sotto – fra gli oppressi e gli schiacciati – non si respira e non c’è acqua.
Poi tocca ai sette minuti celestiali di Twist, con il sorriso ampio e provocatorio di Yorke – come a dire: “ve lo sto dicendo dai tempi di The Bends, che ci stiamo costruendo una bara confortevole con le nostre mani” – che si apre sugli slarghi orchestrali del pezzo.
Ormai siamo senza difese, senza scuse. E alla fine del viaggio, com’è giusto che sia, troviamo ad attenderci due dei brani più candidamente empatici dell’intero repertorio – sì: golem Radiohead compreso. Dawn Chorus è un sussurro per pianoforte e voce arresa, degna erede di Videotape e Codex, un suono sparso a raccontare di qualcuno che continua a ripetere gli stessi errori, ancora e ancora – e ritorna di nuovo il tema del tentativo di connessione, qui pure in italiano e giapponese (“pronto pronto / moshi moshi“).
Poi, visto che all’altro capo del telefono nessuno risponde, non resta che l’ultima invocazione. Tocca alla salvifica Atoms For Peace – tutta melodie aeree, frusciare di puntine hauntologiche e speranze di nuovi inizi – chiudere una serata indimenticabile. Qualcosa che fa ritrovare la voglia di incontrarsi, scoprirsi, notare sconosciuti schiacciati dalla gravità (“gravity always wins“, no?) e dire loro queste esatte parole:
peel all of your layers off
I want to eat your artichoke heart
no more leaky holes in your brain
and no false starts
I want to get out and make it work
so many allies, so many allies
so feel the love come off of them
and take me in your arms
I want to get out and make it work
want you to get out and make it work
I’ll be ok.