Ma quante canzoni d’amore parlano di coppie felici?
Musica e politica hanno apparentemente poco in comune, eppure queste due arti sono state frequentemente connesse da un peculiare fil rouge.
Se è vero che l’arte viene spesso considerata come entità astratta, ed elevata a forma pura attraverso la quale l’uomo può trascendere i limiti della propria mortalità, è altrettanto vero che per quanto le si voglia attribuire una funzione quasi sublimatrice essa non può che scaturire dagli uomini che scelgono di darle vita.
L’arte come prodotto umano si presenta da una prospettiva panoramica come l’espressione di momenti storici e concezioni sociali, mentre uno sguardo macro sull’individuo offre uno scorcio sulle passioni e i turbamenti dell’animo umano.
La connessione tra musica ed il suo oggetto, diverso eppure inglobato in essa, appare nell’antica Grecia, dove per la prima volta viene accompagnata a parole appositamente studiate per essa. I lirici compongono generalmente versi e musica, concepiti come ensemble e cantano la vita dell’individuo e della società che lo circonda. A questa forma d’arte i greci attribuivano un valore ancora più elevato che alla composizione poetica in sé, per il maggior poter espressivo conferitole dalla combinazione di parole, canto e musica magistralmente intrecciate dai lirici.
Ed è la stessa civiltà greca a dare i natali alla prima democrazia, ponendo con essa le basi per una forma di governo che avrebbe rivoluzionato il mondo occidentale poi evolutasi ed alimentatasi sulla scia di correnti ideologiche frutto di speculazioni filosofiche anch’esse figlie della Grecia classica.
Con la tragedia si compie il passo dalla lirica alla rappresentazione drammatica; qui la presenza della musica è ridotta, limitata al coro, ma non meno importante né meno costante nel processo catartico di purificazione dalle passioni a cui il dramma tendeva.
Animata da altro spirito ma accomunata ad essa dal ruolo del coro, la commedia si pone in un’ottica ben più secolare e prende di mira per la prima volta l’uomo all’interno delle formazioni sociali, siano esse la famiglia o quelle proprie della polis. Con Aristofane accade qualcosa che avrebbe avuto un’eco ben più estesa di quella che risuonava nei teatri ateniesi: si utilizza l’arte come lente d’ingrandimento della società, per dissacrarne i vizi ed esaltarne le virtù, per denunciare ciò che è ingiusto e sperare in un lieto fine diverso.
Come per i balbuzienti, cantare la propria condizione sociale risulta più semplice che parlarne; suonare incanala un urlo primitivo di libertà.
La musica come espressione civile e politica subisce uno iato lungo secoli, in cui è inestricabilmente legata ad un ruolo liturgico da un lato e dall’altro ad uno d’intrattenimento, introspezione emotiva e abilità tecnica, quello della musica classica. Notevole eccezione è offerta tuttavia dall’opera, strumento espressivo di sentimenti nazional-popolari che caratterizzarono gli ultimi secoli del secondo millennio.
Ma è con il Novecento che tutto cambia: la musica contemporanea, frutto di un’evoluzione a tutto tondo troppo veloce e prepotente perché qualcosa di pre-esistente potesse tenere il passo, riporta il focus sulla persona e sulla società come insieme di persone.
La tradizione musicale pop – nell’accezione più vasta di popolare, in contrapposizione a quella classica – affonda le sue radici più antiche nel blues delle campagne, ovvero in quell’insieme di melodie intonate dagli schiavi di colore negli Stati Uniti d’America. Oppressi dal lavoro nelle piantagioni, trasformavano la loro condizione di sofferenza (blues significa appunto tristezza, melanconia) in energia, attraverso canti di rabbiosa gioia che permettessero loro di sperare in un futuro migliore. Con l’abolizione della schiavitù e la commistione della cultura degli ex schiavi con quella americana, il blues varca i confini di etnia per diffondersi e svilupparsi sino ad accomunare artisti di qualsiasi colore.
Dal secondo dopoguerra in poi, il mondo occidentale viene scosso da un’ondata rivoluzionaria che non risparmia nessun campo. Nasce il rock, propaggine sovversiva di quella musica ammiccante, ma pur sempre innocua che era il pop. La controcultura che esplode sul finire degli anni Sessanta ne fa il proprio baluardo, riportando violentemente alla ribalta una critica alla società contemporanea che da pacifica espressione di dissenso e rifiuto di conformarsi diventerà sempre più aspra nel decennio successivo. Se per molti le manifestazioni già avvenute negli USA sotto forma di eventi culturali nel ‘68-‘69 rimasero su quel piano di riqualificazione dei valori del singolo, per altri si estesero ad una dimensione politica in senso stretto. Musicisti come Hendrix (Machine Gun), Dylan (Blowin’ In The Wind, The Times They Are a-Changin’) e Lennon (Power To The People, Happy Xmas (War Is Over), Give Peace A Chance, Imagine, Gimme Some Truth) insieme a molti altri abbracciarono svariate cause politiche e civili, tra cui la protesta contro la guerra in Vietnam.
Nonostante molte fossero state le vittorie ottenute (specie da neonati movimenti di lotta civile come il femminismo, l’ambientalismo e i movimenti per i diritti per gli omosessuali e dei neri), gli anni Settanta rappresentano una doccia fredda per quella generazione che credeva di poter cambiare il mondo: le guerre non finiscono, le manifestazioni vengono represse, la politica resta corrotta, le crisi del petrolio mettono in discussione le teorie economiche e si inizia a dubitare che il boom possa durare in eterno.
I temi variano, la location anche. È in Inghilterra che nel 1976 scoppia il fenomeno punk con l’album manifesto Never Mind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols: una nuova generazione rifiuta drasticamente qualsiasi coinvolgimento – figuriamoci impegno – sociale o politico, rifugiandosi in una rabbia nichilista verso tutto e tutti. Una vena più marcatamente politica del punk sarà sviluppata da un’altra band, The Clash, in pezzi divenuti storici come White Riot, Career Opportunities, Spanish Bombs, The Guns Of Brixton e con l’album Sandinista! interamente dedicato ad un movimento socialista sudamericano.
Arrivano gli anni Ottanta, e la crisi (economica) è stata superata. Reagan e Thatcher incarnano il sogno neo-liberista e riconsegnano le due più grandi potenze occidentali a quella ricchezza e potenza che parrebbero appartenere loro. Quella che è una rigogliosa rinascita per alcuni, però, si dimostra una realtà iniqua e grigia per altri e la società sprofonda in un senso di abbandono e disorientamento. Consumismo, TV, privatizzazioni, scioperi e un nuovo conflitto (Sovietico-Afghano) caratterizzano il decennio di cui Paul Weller (The Jam) propone una satira caustica, rinfrescando un conflitto di classe – solo apparentemente sopito dai tempi di Working Class Hero – prima nell’ancora acerba The Eton Rifles e poi in Just Who Is The 5 o’Clock Hero? chiaramente rievocativa del pezzo di Lennon, al quale aggiunge una vena farsesca presente anche in Town Called Malice. Per molti sono però gli Smiths ad incarnare lo spirito travagliato degli anni Ottanta, con i loro album cult Meat Is Murder e The Queen Is Dead.
Negli anni novanta il Brit-Pop rappresenta una ventata di leggerezza dopo un decennio che di ferro non ha avuto soltanto il primo ministro; è con la corsa alle elezioni del New Labour che si concluderà con la vittoria nel 1997 che si rinsalda l’accoppiata musica-politica. Molti artisti della Cool Britannia supportano il candidato Tony Blair nell’ottica di un rinnovamento in cui nuova luce sembra brillare alla fine del tunnel inglese. Stavolta non tanto con le loro canzoni, ma con atti di endorsement più o meno manifesti – celebre il party d’inaugurazione al n°10, tra i cui presenti figura anche Noel Gallagher. Band come i Pulp, capitanata dal genio di Jarvis Cocker, riportano invece in classifica, questa volta in chiave orecchiabile e solo apparentemente leggera, canzoni che parlano di temi sociali cari a molti loro predecessori (Mis-Shapes, Common People).
Lo stesso clima di accorata campagna elettorale e massiccio supporto da parte di personalità celebri e musicisti si ripresenterà soltanto con le due candidature di Barack Obama, che ha contato supporters del calibro di Springsteen, Dylan, Jagger, Beck, Simon, e band come Pearl Jam, Red Hot Chili Peppers, Arcade Fire e The National.
Spesso si dice che la cosiddetta musica politicamente impegnata sia di sinistra (posto che questo significhi ancora qualcosa, nel 2013); probabilmente perché ha incarnato uno spirito di dissenso e degli ideali che si tendono ad associare a ideologie di questo stampo. Ma di quale stampo stiamo parlando, alla fine? Temo sia fin troppo semplice scadere in stereotipi i quali non fanno che imbrigliare ciò che imbrigliato non può – e non deve – essere: l’arte. Come sua forma, la musica è inestricabilmente intrecciata al contesto che le dà origine e al sostrato di cui si nutre. In questo senso credo sia sempre e comunque l’espressione di una riflessione personale, che in momenti fortunati riesce a cristallizzare quella di più persone o addirittura di una generazione; è un grido attraverso il quale fare sentire la propria voce più forte in circostanze in cui se ne sente il bisogno. Bisogno di dire cosa non va; bisogno di chiedere qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso, qualcosa di più.
Si dice anche che questa stessa musica sia negativa, perennemente lì ad esprimere dissenso e rabbia e a fare da monito a cosa non va. Guilty as charged; ma quante canzoni d’amore parlano di coppie felici? E quante invece parlano dello strazio, della maginifica e insopportabile lacerazione di un amore sofferto, infelice, finito, non ricambiato?
La musica ci viene in soccorso quando ne abbiamo bisogno, e difficilmente quello sarà il momento in cui tutto funziona.
“La performance di Hendrix di Star Spangled Banner (inno nazionale americano, ndr) mostrò a tutti che è possibile amare il proprio Paese, ma disprezzarne il governo”
Chiara Marchisotti
[Cross, Room Full of Mirrors: a Biography of Jimi Hendrix. New York: Hyperion, 2006.]
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