“The Handmaid’s Tale” e la dolorosa obbligazione della maternità
«Ma come vuoi morire un giorno, Narciso, se non hai una madre?
Senza madre non si può amare. Senza madre non si può morire»
(H. Hesse)
Durante la 53° edizione del celebre Super Bowl è andato in onda il trailer della terza stagione di “The Handmaid’s Tale”, la popolare serie televisiva distopica rilasciata dalla piattaforma streaming Hulu e attesa per il 25 aprile.
All’interno del regime teocratico di Gilead abbiamo assistito, durante le due stagioni, a varie tipologie di maternità portate avanti dai personaggi principali: quella imposta sotto forma dello stupro e della quale le ancelle sono l’esempio più lampante; quella desiderata fino allo spasimo da Serena (Yvonne Strzechowski), moglie del comandante Waterford (Joseph Fiennes); quella rivendicata come dono da June (Elisabeth Moss) tramite la figlia Hannah; quella surrogata, portata avanti da Moira (Samira Wiley), migliore amica di June. Le attrici, in merito al forte dibattito scaturito intorno ai temi trattati, hanno definito la serie ‘umanista’ e non solamente ‘femminista’.
Non c’è dubbio che gli argomenti sviluppati siano molto forti e che la serie sia arricchita da primi piani intensi e da una fotografia di altissimo livello che aumenta lo straniamento dello spettatore grazie ad un paesaggio illusoriamente bucolico e ad un’atmosfera claustrofobica. L’ancella narrante è Offred (letteralmente: “Of Fred”, di proprietà di Fred), l’utero a disposizione dello sterile comandante Fred Waterford e di Serena Joy, teorica ambiziosa del ‘femminismo domestico’. Mentre l’attivista Fred prepara l’‘improvviso’ (“they said it would be temporary. Nothing changes instantaneously”) colpo di stato in un’America nella quale l’inquinamento radioattivo è all’ordine del giorno e le risorse naturali vengono devastate, Serena esorta le donne a riprendere con forza il loro ‘ruolo biologico’. La dolorosa obbligazione della maternità a Gilead coincide sia con un istinto biologico e naturale, sia con degli atti precostituiti e istituzionalizzati dal regime teocratico. Alle ancelle spetta il compito di ricettacolo dei figli, mentre la vera importanza dell’atto generativo verrebbe assegnata al comandante, dispensatore del seme senza il quale, citando Euripide, “nessun bambino sarebbe mai nato” (Or., 550-556).
Proseguendo con la visione degli episodi si assiste alla progressiva sterilità della classe dirigente, mentre il dono della fertilità viene garantito dalla classe subalterna mediante una forma deviata di controllo della natalità. Le ancelle vengono fecondate da padroni che citano le scritture prima dell’atto (Gen. 30, 1-4, in merito alla sterilità di Rachele e l’utilizzo della serva Bila da parte di Giacobbe), la rivoluzione dirompe e le donne vengono private dell’indipendenza economica e poi personale, mandate nelle colonie a smistare i rifiuti radioattivi o nel Centro Rosso per diventare delle perfette ancelle educate da Zia Lydia (Ann Dowd).
Ancora oggi, a distanza di 30 anni dalla pubblicazione del romanzo della Atwood, l’avvertimento è drammaticamente attuale, con una natalità in calo in Occidente e, 40 anni dopo la legge italiana sull’aborto (più recente il referendum irlandese del 25 maggio), la riflessione sulle nascite è tornata ad essere uno dei grandi temi del dibattito politico, soprattutto da parte di alcune amministrazioni. Alla Women’s March di Washington del gennaio 2018 molte donne impugnavano cartelli riportanti la frase in latino maccheronico Nolite te bastardes carborundorum, (‘non lasciare che i bastardi ti schiaccino’), divenuta celebre dopo il suo utilizzo all’interno della serie televisiva. Senza valicare i confini nazionali, più attuale risulta il ddl Pillon, decreto che aumenterebbe i costi dei divorzi e l’ingerenza del pubblico nel privato, acuendo il livello di povertà delle famiglie più fragili. Proposto sotto forma di disegno di legge a favore dei minori, il provvedimento, come sostiene Silvana Sica, magistrato del tribunale di Napoli, “sposterebbe invece l’attenzione sugli adulti, standardizzando differenti situazioni familiari”.
Ma cosa significa realmente libertà di procreazione per una donna? La maternità surrogata mette sul mercato il libero accesso al corpo femminile (in Italia questa pratica è vietata dalla legge 40/2004), è regolata da differenti legislazioni e fa parte di un processo costoso sia in termini economici che psicologici e burocratici. A Gilead la gravidanza non rappresenta un processo di presunta liberalizzazione della figura femminile, ma viene percepita come dono dato dalla classe subalterna alle mogli dei comandanti, impossibilitate ad essere rese feconde. Il dono della maternità, dunque, termina dopo l’atto stesso del parto e le ancelle sono costrette a cedere i loro figli. Il legame tra madre e figlio, però, non riesce ad essere scalfito: Janine, una delle ancelle, riesce a migliorare le condizioni di salute della figlia nata da poco stringendola al petto e cullandola tutta la notte, differentemente dalla madre ‘adottiva’ a cui è stata affidata.
È il legame materno che, ancora una volta, prevale e la madre, ossia colei che nutre il figlio, muta il ruolo da ancella a quello di genetrix che allatta (tuttavia quest’ultima, intesa come ricettacolo di vita e generatrice, può anche trasformarsi in dispensatrice di pulsioni di morte. Morire diviene così un tornare in quel grembo nel quale siamo stati generati – “nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi tornerò”, Gb. 1, 21-22). Per la protagonista la maternità è innanzitutto un dono, la gioia che si accompagna alla nascita di una nuova vita. Anche il secondo parto, originato da uno stupro, è comunque un inno alla resistenza: dopo innumerevoli difficoltà e quasi un aborto, il bambino nasce durante una notte gelida. Dove c’è dolore, c’è anche consolazione.
La resistenza a cui partecipano anche Ofglen (Alexis Blendel) e Moira è attiva e, nonostante non riesca a garantire l’incolumità delle donne iscritte al gruppo (Ofglen viene spedita nelle colonie dopo essere stata punita con delle mutilazioni genitali e Moira, prima di riuscire a fuggire, dopo un periodo iniziale come ancella lavora presso Jezebel’s , un night club frequentato dai comandanti), è uno dei pochi mezzi dei quali le donne dispongono per ribellarsi al regime teocratico e per urlare che loro non saranno “quelle ragazze nella scatola”. Non è a causa della troppa libertà di scelta che la società implode, come erroneamente ritiene Zia Lydia. Uno Stato che nega i diritti fondamentali prepara l’avvento della distopia di domani. Allo spettatore più annoiato le ancelle possono apparire un’esagerazione delle discriminazioni di genere, ma, a giudicare dal successo della serie, le loro raffigurazioni televisive non sono poi così distanti dalle atrocità commesse nei confronti delle donne e percepite ancora oggi come estremamente attuali.
Cristiana Roffi