Funeralopolis, una danza macabra suburbana – intervista con gli autori
“Nebbia cimiteriale, ci sei mai stato? (…) abbiamo il cielo bianco e non c’è neanche il mare (…) se mi muori accanto ti scavalco per passare”
Secondo Mark Fisher l’eeriness (inquietudine) si declina nel fatalismo, espresso come un’apparente assenza, “un niente dove dovrebbe esserci qualcosa”. Guardando il film di Alessandro Redaelli Funeralopolis – A suburban portrait (http://www.funeralopolis.it), mi è inevitabile ripensare alla riflessione di Fisher, e alla sua galleria di pellicole, album e romanzi contenuta nel prezioso volume “The weird and the eerie” edito da Minimum Fax. Nonostante l’incasellamento nel genere, in questo caso documentario d’osservazione, la bellezza e la potenza di Funeralopolis – A suburban portrait sta nel superamento anarchico dei confini, nel travalicamento delle definizioni e nel dito medio a tutte le aspettative riguardo a un film che parla di periferia e di eroina (ancora).
Al contrario di quello che si potrebbe immaginare, soprattutto se ci si riferisce a classici come Amore Tossico di Caligari, i protagonisti Vash e Felce (due amici che vivono nell’hinterland milanese, dove condividono la passione per la musica e la tossicodipendenza) non sono affatto degli zombie, ma piuttosto degli alieni, imprevedibili e sorprendenti, scanzonati e vibranti, coinvolti in un costante dialogo con la telecamera.
Funeralopolis – A suburban portrait è il racconto di una pulsione di morte incompiuta, sospesa fino all’ultimo battito e all’ultima inquadratura, che diventa modus vivendi per chi sceglie l’eroina. Eppure, quello che continua a ronzarmi in testa pensando al film, è che qualcosa mi stia sfuggendo. Nella totale assenza di giudizio morale o di denuncia sociale, nel bianco e nero delle esibizioni horrorcore e nelle riflessioni mistiche dei due protagonisti, quello che resta è una danza macabra, tanto fantascientifica quanto contemporanea e sincera, sul deserto del reale, “il vuoto al di là di ogni mondo costituito”, citando ancora Fisher.
Seguendo il vitalismo oscuro dei due protagonisti, Redaelli testimonia il “sinistro strisciare della vita”, ad un ritmo incalzante interrotto da fugaci squarci di tenerezza, incapaci da soli a sconfiggere il generale senso di abbandono che domina il film, senza che si rinunci mai tuttavia alla ricerca di senso e di risposte.
Ecco cosa è uscito fuori dalla mia chiacchierata con la squadra al completo: il regista Alessandro Redaelli e i co-autori Daniele Fagone e Ruggero Melis, che ha curato anche la colonna sonora del film.
Com’è nato questo progetto?
R. Il progetto è nato perché conoscevo i due ragazzi protagonisti che abitavano a Bresso vicino casa mia. Abbiamo iniziato a frequentarci a 14-15 anni, ed essendo Bresso una piccola frazione di Milano in cui sostanzialmente non succede niente, a parte qualche rapina ogni tanto, eravamo solo noi a fare delle cose. Io provavo già a girare dei corti, loro facevano musica, poi ci siamo persi di vista e li ho ritrovati nel 2015 dopo che non ci vedevamo da qualche anno. Ho scoperto la situazione che stavano vivendo e in modo molto spontaneo gli ho chiesto se potevo seguirli per un po’. Li ho seguiti per un anno e mezzo circa, ed è uscito fuori il film.
Istinto di morte
Partendo dal materiale che avevate, come avete lavorato alla scrittura del film?
R. La scrittura è nata dopo circa sei mesi che stavo girando. Ho fatto un piccolo premontato di quello che avevo in mano mentre cercavo una direzione vera e propria, e a quel punto Ruggero e Daniele sono intervenuti in montaggio. Abbiamo deciso di scrivere il film mentre lo montavamo, dandogli una struttura e cercando di capire quali potessero essere i finali. Quando ho finito di girare, gli abbiamo dato una chiusa con una struttura narrativa precisa, anche se il film non è tutto in ordine cronologico.
Nonostante sia un film documentario di osservazione, è evidente l’influenza del cinema di genere.
A.R. Sicuramente c’è, anche io l’ho ritrovata a posteriori, nonostante non avessi girato con l’intenzione di fare un film di genere. L’approccio è stato dall’inizio quello puro del documentario di osservazione.
Dopo solo qualche minuto dall’inizio, Vash si rivolge in camera chiedendoti un fazzoletto. In diverse scene del film emerge l’approccio performativo alla vita che caratterizza i due protagonisti, e di conseguenza i differenti livelli di narrazione, come quando Vash spiega a Felce quello che faranno durante un’esibizione. Avete scelto di interrompere la finzione in vari momenti, perché?
A.R. Fa parte del cinema di osservazione, sappiamo che c’è una camera che sta riprendendo. La scelta è quella di raccontare qualcosa che fa parte di loro. Il fatto che parlino in camera con un determinato tono, dicendo determinate cose racconta il loro desiderio di mostrarsi.
R.M. La quantità di materiale in cui si rivolgevano alla telecamera senza che gli fosse richiesto era tanta che abbiamo dovuto fare i conti col fatto che la loro personalità viene fuori anche da quello. La presenza della telecamera li spinge a comportarsi così, perché sono abituati a mettersi in mostra in quel modo. Non si tratta quindi di una distorsione della realtà, quanto di un racconto più completo della loro personale realtà.
D.F. Abbiamo avuto un’epifania collettiva: partendo dal presupposto che la camera influenza comunque la realtà, al di là del fatto che violassimo così le regole che si imparano alla scuola di cinema, in questo modo i due protagonisti raccontavano loro stessi: tanto valeva, con il giusto dosaggio, usare quel materiale.
Spesso al centro delle inquadrature c’è il rapporto con il corpo: l’eroina, l’autolesionismo, il contatto con gli altri. Come avete scelto la distanza da cui mostrare l’intimità, sia in fase di ripresa che di montaggio?
R. Durante le riprese mi sono limitato a stare vicino a loro costantemente, appena uscivano di casa e mi davano l’opportunità di andare a girare. Non ho scelto di posizionarmi lontano proprio per il loro approccio performativo: sono consapevoli della camera e ci giocano. Girando con un grandangolo, ero letteralmente appiccicato ai personaggi. All’inizio erano molto consapevoli della camera, a metà delle riprese invece hanno cominciato a dimenticarsi della mia presenza e io ho continuato a fare tutto come dal primo giorno. Non ho mai interagito con loro, se non quando spegnevo la telecamera per un attimo, tendevo però a passare intere giornate senza spiccicare parola e cercando di captare i momenti più interessanti da portarmi a casa.
M. Va in controtendenza rispetto al cinema di osservazione, quasi sempre girato da una certa distanza, con un’estetica molto legata al teleobiettivo. Invece, per il fatto che loro non reagiscono negativamente nascondendosi di fronte telecamera, è stato possibile approfittarne andando più in profondità. In fase di montaggio abbiamo un po’ calcato la mano. È stata una scelta consapevole condivisa da tutti e tre quella di non lesinare mai i momenti più intimi legati alle situazioni riguardanti il corpo, l’uso degli aghi, il vomito, i gesti di affetto; anche quando sono sgradevoli, sembrano eccessivi e hanno una connotazione invasiva. L’obiettivo era anche quello di creare situazioni di disagio che per lo spettatore fossero complesse da digerire, per noi era un effetto necessario.
A.R. Ad esempio, la scena della festa, è montata “male” apposta, la durata è sbilanciata rispetto a quella che avrebbe avuto nell’ottica di un montaggio più accademico, per enfatizzare la pesantezza di quel momento. Abbiamo deciso di esagerare per farla culminare con il punto più importante del film, quello in cui lo spettatore arriva quasi a dire basta, non ce la faccio più. Allo stesso modo, subito dopo, Felce dice basta e abbandona l’eroina.
Quali sono state le reazioni del pubblico durante le proiezioni?
A.R. Il pubblico ha praticamente sempre reagito bene, cosa che non ci aspettavamo. È un film che riesce a coinvolgere un po’ tutti, a parte qualche caso sporadico. Ricordiamo sempre il Biografilm Festival, quando alla fine della proiezione una signora si è alzata dicendo che non condivideva il fatto che non avessimo preso una posizione o condannato quello che mostravamo. Fortunatamente sono poche le persone che hanno bisogno della lezioncina morale.
R.M. Soprattutto, è chiaro che se non riesci da spettatore a proiettarci qualcosa di tuo, rimarrà solamente la sensazione di disagio che hai provato durante la visione del film. Abbiamo sempre percepito in effetti una certa tendenza nell’aria a rivoltarsi nella poltrona, però quel disagio può trasformarsi in una riflessione.
Le tematiche e la crudezza di alcune scene vi hanno creato problemi nella distribuzione?
A.R. La distribuzione è una questione delicata e complessa. Abbiamo fatto un kickstarter per i primi che hanno voluto sostenerci, a breve usciremo con l’edizione dvd e ormai un piccolo giro delle sale è stato fatto. Abbiamo coperto delle proiezioni singole andando nelle città a portare noi stessi la copia, ed è stato accolto molto bene dappertutto, adesso passiamo alla seconda fase.
R.M. Problemi ne abbiamo avuti, nel senso che anche le case di distribuzione che hanno mostrato interesse nel film, al di là del gusto personale di chi si occupa di acquisizione, ci hanno risposto “ci è piaciuto, è un filmone, ma non possiamo distribuirlo”. Però va bene. A un certo punto, qualcuno che ci dirà “va bene lo distribuiamo” sono sicuro riusciremo a trovarlo.
Vash e Felce scrivono canzoni horrorcore, un genere non propriamente commerciale, e la musica ha un ruolo importante nel film. Ruggero, come hai lavorato nel dialogo tra la musica dei protagonisti e quella del film?
R.M. Ci sono state fasi molto diverse. Quando Ale ha iniziato a girare il film, mi ero subito proposto di fare la musica. Successivamente ne avevamo parlato, arrivando alla conclusione che il film dovesse reggersi da solo sulle sue gambe, senza colonna sonora. Una volta iniziato il montaggio, avevamo pensato addirittura di utilizzare le loro canzoni come colonna sonora, ma dopo averci ragionato un attimo abbiamo capito che il film non avrebbe avuto la giusta distanza dai protagonisti se ci fosse stato questo ulteriore intervento. Alla fine siamo approdati alla versione definitiva della colonna sonora, che consiste di pochissimi brani molto brevi, piccoli interventi che servono quasi più ad alleggerire la realtà.
Ad esempio la scena della pera nel collo al parco di Rogoredo, girata col cellulare, che rimane in testa a tutti come la più difficile da digerire, ha reso necessario un intervento più strutturato con la musica per trasformarla in una sequenza meno realistica, più d’impatto. Da lì a cascata abbiamo individuato più o meno altri cinque momenti in cui la musica poteva svolgere la stessa funzione, e abbiamo deciso di costruirla così, sempre cercando però di evitare il commento audio, a sostegno di quello che sta succedendo in scena ma mai in maniera troppo esplicita. La musica si è adattata al montaggio definitivo del film e non viceversa, per questo ne segue il ritmo.
C’è un nuovo progetto in ballo? Se sì volete dirci qualcosa?
Insieme No. Vabbè, possiamo dire che è un documentario di osservazione, su un altro tema e con un’impostazione un po’ diversa. Sarà un documentario corale su un ambiente ancora poco esplorato. Per adesso rimaniamo vaghi, facciamo i misteriosi.