Avere un fratello o una sorella, mi è stato detto, insegna a litigare nel modo corretto: insegna a sapersi scontrare con spontanei picchi di violenza verbale (e fisica?) congegnati per esaurirsi, come petardi, tanto in fretta così come sono scoppiati. Fratelli e sorelle conoscono l’arte del litigio perfetto: tam melodrammatico quam smemoratissimo, per cui un attimo dopo già non ci si ricorda più nulla.
Io, che al contrario sono figlia unica, da bambina ero incapace di litigare bene: non sapevo mai reagire con prontezza, non tenevo confidenza, mi vergognavo, e preferivo chiudermi in camera a pettinare le barbie in silenzio, piena di rancore. La mia sentenza giungeva dopo che avevo finito di fare la treccia a tutta la collezione, da Tanya la ginnasta a Pocahontas, e consisteva due volte su tre nel mettere il muso per sempre.
Si spiega in questo modo il fatto che sia stato un po’ complicato all’inizio riuscire a farsi degli amici: se mi fregavano la merenda, non dicevo niente e poi avevo incubi di notte; se mi escludevano, avevo incubi di notte; se mi parlavano e volevano giocare con me, avevo incubi di notte lo stesso.
Poi gli amici – quelli coraggiosi bugiardi fedeli scrocconi complici, sempre e comunque petulanti – sono finalmente arrivati, e da lì è stata tutta discesa. Litigare è diventato facilissimo.
« Avevo sognato di assistere al mio funerale, a piedi, camminando in mezzo a un gruppo di amici vestiti a lutto stretto, ma in vena di bagordi. Sembravamo tutti felici di stare insieme. E io più di ogni altro, per via di quella grata occasione che mi offriva la morte di ritrovarmi con i miei amici, i più vecchi, i più amati, quelli che non vedevo da più tempo. Al termine della cerimonia, mentre cominciavano ad andarsene, io avevo tentato di seguirli, ma uno di loro mi aveva fatto notare con una severità risoluta che per me la festa era finita. “Sei l’unico che non può andarsene” mi aveva detto. Solo allora avevo capito che morire è non ritrovarsi mai più con gli amici. »
(da “Dodici racconti raminghi”, Gabriel García Marquez)
Nel 1923 il giovane Jorge Luis Borges pubblica il suo primo libro, una raccolta di poesie intitolata “Fervore di Buenos Aires”: qui, e sicuramente prima, comincia il cammino tipografico di quello spirito arcano e antico, immensamente grande e sempre inafferrabile, contraddittorio e onnisciente, “indecifrabile e quotidiano”, che conosciamo sotto il nome liturgico di “borges“, non più nome proprio ma inespugnabile sostantivo.
La poesia “Llaneza” (Familiarità), che in “Fervore di Buenos Aires” è contenuta, ben rappresenta quel primo lavoro di gioventù tutto teso a cantare il sobborgo, la dimensione familiare, la strada consueta, il nido protettivo, il rifugio. Che per Borges significano tutti: il sobborgo della sua Buenos Aires.
Quando penso al suo amore per la capitale argentina mi viene in mente il testo di “Vorrei” di Guccini, se al posto della donna amata sta la città; se al posto dei ciuffetti di paretaria attaccati ai muri stanno « l’odore del gelsomino e della madreselva,| il silenzio dell’uccello addormentato,| l’arco dell’androne » cantati da Borges in “Il Sur”; e se al posto del desiderio sta la certezza di una familiarità già conquistata e a cui sempre si ritorna.
Mi chiedo come abbia potuto un ragazzo di soli ventitré anni – sì abituato a viaggiare molto ma pur sempre ancora giovanissimo – provare già un così forte attaccamento allo spazio domestico e familiare, alla dimensione della consuetudine, piuttosto che scoprire l’impulso giovanile alla vita formicolante, inebriante, guerriera, in un mondo ancora inesplorato e avventuroso.
Mi chiedo da che cosa il giovane Jorge Luis Borges abbia sentito il bisogno di rifugiarsi, e quale sia stato per lui l’Estraneo cui contrapporre il Familiare.
E per rispondere a tutti i miei dubbi interpretativi, come sempre mi succede al cospetto della poesia, non ho che la mia storia minima e personale.
E questa storia racconta di come, nel cammino dai dieci ai vent’anni, divenne un po’ più semplice stare al mondo avendo gli amici attorno. Di come solo in mezzo a loro fu sempre un atto spontaneo, senza maschere né strategie.
Di come a quel tempo si staccò dal mondo una piccola isola-rifugio, un angolo di spazio conosciuto in cui tutto esiste da sempre ed è dato per scontato; in cui poter essere sé stessi immediatamente, nel litigio, nella noia, nell’avventura; in cui non c’è bisogno di parlare né di mentire privilegi, perché bene ci conoscono coloro che lì ci circondano.
(E con loro si può litigare con la spontaneità dei bambini, e dei gatti.)
Familiarità (Llaneza)
Si apre il cancello del giardino
con la docilità della pagina
che una frequente devozione interroga
e, dentro, gli sguardi
non hanno bisogno di fare caso agli oggetti
che sono già precisamente nella memoria.
Conosco le abitudini e gli animi
e quel dialetto di allusioni
che ogni raggruppamento umano ordisce.
Non ho bisogno di parlare
né di mentire privilegi;
bene mi conoscono coloro che qui mi circondano,
bene sanno le mie angosce e la mia debolezza.
Questo è raggiungere ciò che è più alto,
ciò che forse ci darà il Cielo:
non ammirazioni né vittorie
ma semplicemente essere ammessi
come parte di una Realtà innegabile,
come le pietre e gli alberi.
(da “Poesie. 1923-1976”, Jorge Luis Borges, BUR)