L’odore di Itaca, un alito caldo che porta con sé lavanda mirto ginepro e rosmarino. S’apprende alla memoria oltre le leggi del tempo e dello spazio (più di vent’anni e il più tragico dei mari) e non si lascia dimenticare: accarezza i capelli di Circe al mattino, scompiglia i fiori del giardino di Calipso, arruffa le penne alla sirena Parthenope.
Itaca chiara nel sole. I suoi paesaggi aspri, di pietra e roccia; i suoi monti e i boschi per i quali un tempo scorrazzava il fedele Argo; i suoi ulivi, i fichi e i filari di vigne: ogni cosa è sacra come un sentimento. Ancora prima degli dei, a Itaca si venera la casa (oikos): le mura, il mégaron, il focolare, la dispensa per le provviste di olio e grano, di miele e frutta secca. Per questa ragione Itaca, quotidiana e mortale, è l’emblema di ogni ritorno.
Beato figlio di Laerte, Ulisse dalle molte risorse,
sì, dunque, tu hai fatto tua una sposa dotata di grande virtù:
tanta saggezza di mente ha l’irreprensibile Penelope,
figlia di Icario, così presente ebbe nella sua mente Ulisse,
suo legittimo sposo.
(Odissea, canto XXIV, 192-196, ed. a cura di Vincenzo Di Benedetto, BUR)
A Penelope è toccato un compito meschino. Per tutti è sempre stata colei che aspetta – «Tutta una vita ad aspettare. Non conosco altro modo di vivere che questo» [1] – mentre Ulisse è il guerriero forte e coraggioso, l’avventuriero, l’astuto ingannatore senza eguali che gira il mondo, obbedendo alla sua sete di conoscenza come a un comandamento, una forza uguale e contraria alla sua nostalgia di casa (per seguir virtute e canoscenza, dice Dante).
Ma l’Odissea è un sistema complesso, multiforme, misterioso e cangiante: non bisogna sottovalutare il posto che in esso occupa la sposa di Ulisse. L’intero poema, dopotutto, è la storia di come a lei si ritorna.
«Questa creatura del sonno e dei sogni è anche una figlia della ragione: un’imperterrita calcolatrice e ragionatrice. Lo spirito di Penelope è sempre doppio: mentre parla, una forza segreta, che agisce dentro di lei, ragiona, trama, macchina, calcola, inganna, esattamente come Ulisse. Il marito e la moglie sono simili e dissimili: si contraddicono e si completano. Da questo gioco intricato di somiglianze, dissimiglianze e riflessi, nasce la concordia profondissima tra il marito e la moglie.» [2]
Ulisse è polýtropos, l’uomo dalle molte forme: la sua mente, come il suo nome, è «piena di incanti e seduzioni» [2], colorata, ingegnosa, allenata alla più ardua pazienza, intricata e inestricabile come un labirinto. Ulisse è anche il grande bugiardo, l’artigiano di mille astute invenzioni, il signore degli inganni superbo e vanitoso: inventa il cavallo di Troia, raggira Polifemo, ritorna a Itaca travestito da mendicante.
Ma Penelope – la molto saggia Penelope, colei che eccelle nel conoscere astuzie – non è da meno: il suo nome abita il mondo con un rumore regale, un suono dolcissimo e fiero. Penelope, la regina dai lunghi capelli neri, è modellata da Omero dal regno dell’interiorità e dei sogni, un regno che fa da contraltare a quello esterno e avventuroso di Ulisse. I due sposi sono l’uno lo specchio dell’altra.
«La tela corre lungo tutta la parete. Sottile, lavorata con arte, piena di colori. Dentro Penelope ha tessuto figure alate, mostri, uccelli, piante vere e immaginate. Un grande polipo con due occhi ovali e i tentacoli arricciati; guerrieri sui carri e donne con gioielli e vesti variopinte. La dea Atena con la lancia e l’armatura. Il mare viola e una barca che si avvicina a un’isola.» [1]
Riservata, pudica, fedele: da sempre la dipingiamo in questo modo. Penelope è il modello della donna onesta. Eppure un occhio attento saprà scorgere anche in lei ambiguità e contraddizioni. Penelope mente, promette, riceve doni e invia messaggi ad uno dei pretendenti (Anfìnomo, re di Dulichio), a qualcuno di loro, forse a tutti. Più volte mostra un cuore di pietra, quasi spietato: ma è altrettanto capace di provare orrore per il sangue e per la violenza, di provare pietà – per i proci trucidati? Per le ancelle impiccate? – quando questa sembra essere scomparsa dal cuore di tutti. [3]
La tela sottile nella quale si impigliano le speranze dei proci tracotanti – il sudario per Laerte che Penelope, abilissima tessitrice, compone di giorno e disfa di notte per ingannarli – è la risposta, per astuzia e per artigianato, al cavallo di Troia escogitato dal suo sposo. Anche lei, come Ulisse, possiede la metis, l’intelligenza astuta.
E se da un lato sembra spesso compiacersi del proprio dolore – «preferisce l’attesa / lei non mi crederà, perché ama la sua nostalgia», canta Capossela – d’altro canto diverse fonti raccontano una Penelope fedifraga (e in alcuni casi dubitano persino della paternità di Telemaco). Non pochi personaggi – fra cui il figlio, la dea Atena, Ulisse stesso – diffidano di lei: Ulisse, appena ritornato a Itaca, si rivela al porcaro Eumeo, al figlio Telemaco e (dopotutto) alla vecchia nutrice Euriclea, ma non a Penelope. Penelope deve essere messa alla prova. [4]
Nel cuore dell’Odissea rimane però una certezza: per vent’anni Penelope governa Itaca da sola, “amministra” la casa con le stesse armi del marito, l’astuzia e la pazienza. Il vuoto di potere a Itaca, dovuto all’assenza del suo basileus skeptuchos (il “re” con lo scettro), non viene colmato né da Telemaco né da un altro uomo per vent’anni: da una certa prospettiva, il ritorno di Ulisse segna la fine di un matriarcato (anche se su questo punto Eva Cantarella non sarebbe d’accordo [4]).
Il significato del rapporto fra Ulisse e Penelope, fra questi due padroni dell’inganno tanto simili e contrari, è custodito nel mondo dei segni segreti: i segni fondati sulla memoria coniugale che gli sposi, e solo loro, conoscono e condividono.
Amareggiata e ferita nell’orgoglio dal fatto che il suo divino Ulisse non si sia fidato di lei al suo ritorno in patria e abbia avuto la forza di mentirle dopo vent’anni di lontananza, Penelope decide di vendicarsi: anche Ulisse dev’essere messo a sua volta alla prova. La regina di Itaca escogita un tranello attorno a quello che è il loro segno segreto per eccellenza, il letto matrimoniale che Ulisse ha costruito con le sue mani al principio del loro matrimonio, intagliandone una colonna nel tronco di un ulivo. Il letto d’ulivo che per lui è il centro del mondo.
«Che Ulisse abbia rifiutato la mia collaborazione e il mio aiuto è causa di una amarezza alta come il cielo. (…) La sua finzione mi ha allontanata da lui più di vent’anni di assenza» [5]
Quando la carneficina dei cento otto proci è terminata e tutto il loro sangue è stato ripulito, la vecchia Euriclea corre da Penelope per avvertirla che il suo sposo è tornato, che il vecchio lacero mendicante ospitato da Telemaco è in realtà Ulisse. Non credendo ancora (o, secondo un’altra lettura del poema, fingendo di non credere) che quel pitocco (ptochos) sia suo marito, Penelope non batte ciglio e, per dovere di ospitalità verso lo straniero, le ordina di preparare per lui il letto che fu di Ulisse, ma fuori del solito talamo che ha costruito lui stesso.
Allora Ulisse,
adirato disse alla sposa dai saggi pensieri:
“Donna, fa male al cuore il discorso che hai detto.
Chi ha spostato il mio letto? (…)
Per nessun uomo vivente, anche nel pieno di giovinezza,
sarebbe facile smuoverlo. Un segno importante c’è in quel letto
così ben fatto: fu il mio lavoro e di nessun altro.
C’era dentro al cortile una pianta frondosa di olivo,
rigogliosa, fiorente, e massiccia come una colonna.
Io la cinsi di un talamo, che fui io a costruire, fino alla fine,
con pietre compatte, e con perizia feci la copertura.
Ci misi infine solidi battenti, strettamente connessi.
Poi tagliai via la chioma dall’olivo dall’esteso fogliame,
e il ceppo sgrossai fino alla radice, e tutt’intorno con il bronzo
lo spianai con competenza e perizia, e a filo lo livellai,
creando con arte una base e tutto lo traforai con il trapano.
E poi, di seguito, spianando feci il letto. E così lo finii,
intarsiandolo d’oro e d’argento e d’avorio,
e vi tesi cinghie di bue, splendenti di porpora.
Ecco, questo è il segno che ti rendo manifesto”.
(Odissea, canto XXIII, 181-202)
Arrivata a questi versi comincio a respirare con leggerezza, a sciogliere le gambe, ad allentare la presa delle dita sulla mia copia scalcagnata dell’Odissea: tutto ciò che mi preme, alla fine, è semplicemente arrivare sana e salva a questo momento. Non voglio sentire altro (dei viaggi che continueranno, delle narrazioni parralele ad Omero, delle reinterpretazioni moderne), ma solo restare ferma in questo preciso momento della fascinazione, della poesia e dell’amore.
Non appena Ulisse riconosce e difende il loro segno segreto, Penelope depone le armi e lo perdona (a lei lì si sciolsero le ginocchia e il cuore): le sue angosce e i suoi dolori [6], così come i tormenti patiti da Ulisse, possono finalmente essere medicati.
Poi che ebbero goduto il piacere di amore, i due sposi si raccontano gli anni che hanno vissuto lontani, intenti a ricucirli, per riappropriarsene insieme. Per me l’Odissea è proprio questo, il racconto che Ulisse fa a Penelope e che Penelope fa a Ulisse, abbracciati l’uno all’atra sul letto di ulivo: il racconto di quei vent’anni inabitati ed estranei l’uno per l’altra. Nessun Tiresia può rovinare quel momento.
L’arte del racconto, la parola, la narrativa, la poesia ci fanno riappropriare del tempo che non abbiamo vissuto, dello spazio che ci ha tenuto a distanza: il potere della letteratura è in fondo questo. E, grazie a lei, il tempo e lo spazio finiscono per obbedire ai nostri comandi.
Un rivolo di miele dorato e vischioso colava dalla bottiglia
così lento che la padrona ebbe agio di raccontare:
– Qui nella Tauride mesta dove ci ha condotto la sorte, non un filo
proviamo di nostalgia, – e gettò uno sguardo da sopra la spalla.
Opere di Bacco dovunque, come soltanto ci fossero al mondo
custodi e cani: tu vai per la strada e non vedi, non incontri nessuno.
Rotolano calmi i giorni, simili a grosse pesanti botti:
laggiù, voci dentro un capanno – non ne afferri il senso, non sai che rispondere.
Dopo il tè uscimmo all’aperto in un immenso giardino marrone;
come ciglia, sulle finestre erano abbassate scure tende;
per dare un’occhiata alla vigna passammo oltre bianche colonne,
e un liquido vetro d’aria smaltava i pendii sonnolenti.
Io dissi: l’uva qui pulsa come un’antica battaglia
fra ricciuti cavalieri che si battono in viticciosa falange;
nella Tauride, nelle sue pietre, c’è la scienza dell’Ellade: guarda
nobili aiole color ruggine di ettari che sfoggiano oro.
Nella candida stanza domina come un arcolaio il silenzio.
Odore di aceto, pittura e vino fresco esala dal sotterraneo.
Ricordi, nella casa greca, la donna così seducente
per tutti – non Elena, l’altra – quanto ricamò anni ed anni?
Vello d’oro, dove stai, vello d’oro? Non ci fu che uno strepitare
di grevi onde marine lungo tutto, tutto quel viaggio,
e lasciando la nave che aveva fiaccato la tela sui mari
fece ritorno Odisseo, colmo di tempo e di spazio.
(da Ottanta poesie, Osip Mandel’štam, Einaudi)
[1] Ulisse. L’ultimo degli eroi, Giulio Guidorizzi, Einaudi, 2018
[2] La mente colorata, Pietro Citati, Adelphi, 2002
[3] Il canto di Penelope, Margaret Aatwood, Ponte alle Grazie, 2005
[4] Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Eva Cantarella, Feltrinelli, 2002
[5] Itaca per sempre, Luigi Malerba, Mondadori, 1997
[6] Eroidi, Ovidio