Il Signore degli Anelli | Storia di una storia (15 anni dopo)
Non lo nascondo, quando mi è venuta l’idea di scrivere questo pezzo, dopo circa 7 secondi sono arrivati i dubbi: come si fa a dire qualcosa di sensato e interessante per un film, anzi una trilogia, con 15 anni e 17 Oscar di ritardo? Non lo so. Io ci provo.
Facciamo un passo indietro. 1642 d.C., Abel Tasman scopre la Nuova Zelanda. Nessuno nota la cosa fino al 1997, quando giunse notizia che un paffuto neozelandese di nome Peter Jackson avrebbe scritto – o meglio adattato, ma ci torniamo dopo – prodotto e diretto la trilogia de Il Signore degli Anelli, dall’omonimo romanzo del Prof. John Ronald Reuel Tolkien.
Peter Jackson? Quello degli splatter grezzissimi fatti con due spicci? Proprio lui, la persona piú improbabile che ci fosse! Peter Jackson, come il corrispettivo transoceanico Guillermo del Toro, è l’amico buffo con cui si ride e che non sempre è capace di capire quando quel “con” diventa un “di”; se impariamo a conoscerlo meglio magari gli chiediamo pure un consiglio e di tanto in tanto dice anche due cose interessanti su argomenti molto specifici, ma poi la cosa finisce lì. Insomma, Peter Jackson è uno Hobbit: simpatico, affabile, a modo suo operoso ma certo non la prima persona a cui affideresti il destino del mondo…ops, ho appena spoilerato tutto!
Già, quasi dimenticavo. Dato che ho scoperto esistere qualcuno che non ha mai visto il film né letto i libri (sì, ce l’ho con te) forse è bene accennare brevissimamente a ciò che succede: uno Hobbit – creatura umanoide di stazza, forza e acume ridotti – di nome Frodo attraversa mezzo mondo per andare a distruggere un Anello magico da cui dipende la vita dell’Oscuro Signore che sennò vince e ci fa il culo a tutti. Fine digressione.
Quindi, chi meglio di uno Hobbit in carne ed ossa per raccontare una storia che parla proprio di come una di queste creature fondamentalmente inadeguate a tutto ciò che non sia bere, mangiare e coltivare patate si accinge a fare ciò che chiunque altro avrebbe – o aveva – fallito?
Tale assioma non era ben chiaro al mondo produttivo hollywoodiano che quando si vide questo panciuto bambinone presentarsi alla porta, tendenzialmente rispose ridendogli in faccia. L’unico a dargli un minimo di credito fu Harvey “Prezzemolino” Weinstein ma quando PJ provò a contrattare l’offerta iniziale di 75 milioni di dollari – una cifra assolutamente irrealistica considerando che, per esempio, il coevo primo Harry Potter ne costò, da solo, 125 – tutto sfumò.
Fu una casa di produzione minore – la New Line Cinema – che, capìto che tre film avrebbero permesso di diluire i costi e di triplicare i guadagni, rianimò il progetto assumendosi l’onere di co-produrre e distribuire le pellicole.
Con lo spirito del bambino che ha a disposizione “la più grande pista di trenini del mondo” (sue parole), l’adiposo kiwi si avvia quindi a fare la storia. Ed esattamente come Frodo si affianca ad amici e gente esperta per affrontare il viaggio che l’avrebbe portato dalla placida Contea fino all’oscuro paese di Mordor, così il pingue australe crea un team in grado di unire maestranze e vecchie amicizie. Vado a presentarveli accostandoli ai loro omologhi filmici:
Robert Shaye: garante (Gandalf). Fondatore della New Line Cinema, fornisce i mezzi affinché Peter Jackson parta, si assume la responsabilitá di avergli affidato l’esito di tale impresa e lo presenta alle persone giuste. Senza di lui, Frodo non avrebbe mai nemmeno lasciato la Contea.
Fran Walsh: moglie di Peter Jackson (Sam). Compagna e co-sceneggiatrice, offre supporto morale quando le difficoltà si fanno eccessive. Peter Jackson si prenderà il merito ma se non fosse stato per lei, lui sarebbe caduto in un fosso sin da subito.
Christian Rivers, Richard Taylor: amici d’infanzia (Merry e Pipino). Il primo lavora agli storyboard della trilogia, l’altro è il fondatore della compagnia d’effetti speciali – la Weta Digital – che si occuperà della messa in scena. All’inizio dell’operazione sono figure semisconosciute, dopo avranno il mondo ai loro piedi. Per dire: la Weta è quella che poi lavorerà con James Cameron per realizzare Avatar.
Alan Lee, John Howe, Howard Shore: i tre cacciatori (Aragorn, Legolas e Gimli). I primi due sono i disegnatori “ufficiali” di Tolkien, il terzo un compositore blasonato. Fungono da supporto tattico, sono la base con esperienza che dà credibilità ad un altrimenti improvvisato gruppo di amici in gita. Non chiedono gloria, quella verrà da sé.
Si va bene, so che c’era anche altra gente ma se li nominavo tutti a) non finivamo più (i titoli di coda del primo film durano MEZZ’ORA!!) e b) il giochino dei corrispettivi non mi riusciva. Andiamo avanti.
Radunato il team, scelte le location, costruiti i set, il film parte. Tre film per la precisione, per un totale di circa 11 ore di avventura. I tre capitoli vengono girati più o meno contemporaneamente (ottima mossa per risparmiare danari ma anche per evitare di dover aggiustare il tiro a seguito di determinate reazioni della critica – un flagello nel mondo contemporaneo) e rilasciati con cadenza annuale: 10/12/2001 (La compagnia dell’Anello), 18/12/2002 (Le due torri) e 17/12/2003 (Il ritorno del Re).
Il resto è storia: 17 Oscar; ma anche un guadagno complessivo di quasi 3 miliardi a fronte di una spesa iniziale di circa 280 milioni (senza contare i ricavi associati al merchandising), decine di carriere lanciate, lo sdoganamento di un certo genere di fantasy come prodotto d’intrattenimento per il grande pubblico…il boom del turismo in Nuova Zelanda.
Questi film hanno stravolto il modo di fare ed intendere il cinema, rappresentando la conclusione di un’epoca e l’inizio di un’altra.
Consideriamo la mera tecnica: da un lato, sono stati forse l’ultimo esempio di blockbuster a fare un uso così ampio del prostetico, di location naturali, di modellini in scala e scenografie materiali; insomma, della realtà. Spesso vi ritroverete a dire “wow, sembra vero” per il semplice fatto che era vero. Per dire, il set di Hobbiville venne costruito ricreando l’intero villaggio a grandezza naturale (oggi è una popolare attrazione turistica di Matamata).
Ma sono anche state pellicole rivoluzionarie per quanto riguarda lo sviluppo tecnologico. Un esempio su tutti: Smeagol. Fino ad allora per i personaggi non umani si potevano utilizzare soltanto pupazzi e robot (Lo Squalo, Jurassic Park), maschere prostetiche e make-up estremo (i vecchi Star Wars) o controfigure ricreate interamente al computer (i “nuovi” Star Wars). Ovviamente queste tecniche risultavano del tutto inadeguate quando il personaggio doveva non solo limitarsi a comparire ma anche a comportarsi, esprimersi, far trapelare emozioni. PJ e il suo team – quei matti della Weta – sopperirono al problema portando una tecnica fino ad allora allo stadio larvale ad un livello mai visto prima che permetteva di adattare i movimenti del corpo nonché la mimica facciale di un attore in carne ed ossa ad un personaggio computerizzato, senza bisogno che l’attore recitasse “off screen” con conseguenti difficoltà d’interazione col resto del cast.
La tecnica della real time motion-capture ha stravolto il modo di fare cinema ed è oggi praticamente lo standard minimo per qualsiasi film con vaghe pretese di apprezzamento. Se oggi possiamo avere alieni blu, draghi parlanti e scimmie rivoluzionarie è tutto grazie a quel piccolo mostriciattolo deforme che parla come un gatto agonizzante.
Per quanto sarebbe bello approfondire ogni singola scena (un giorno scriverò una monografia sulla battaglia al Fosso di Helm), ogni attore (chi è il vostro preferito? E perché proprio Ian McKellen?), ogni decisione registica o di scrittura (com’è possibile che anche la spalla comica del film, Gimli, trasudi epicità in ogni suo gesto?), o come quest’opimo regista antipode sia stato in grado di regalarci una delle esperienze più alte di Cinema degli ultimi 50 anni nonché la peggiore (sì, la trilogia de Lo Hobbit è un aborto immondo che non può essere giustificato in nessun modo), bisogna ancora affrontare l’elefante nella stanza, il vero banco di prova per un qualsiasi adattamento audiovisivo: il confronto con la controparte cartacea.
Il Signore degli Anelli (1955) è stato uno dei romanzi che più ha diviso, cronologicamente e socialmente, il XX secolo. Non c’è gruppo sociale che non lo abbia elevato a testo di riferimento: dai fascisti agli anarchici, dai reaganiani agli hippy, dai cristiani ai wiccan. Il Signore degli Anelli è una storia talmente ampia, talmente rivolta a chiunque, che ognuno di noi potrà leggerci qualcosa e ricordare una sensazione invece di un’altra.
E con i film succede lo stesso. Chiedete a 10 persone diverse cosa hanno conservato di questi film, ed ognuna di loro vi darà una risposta diversa: c’è chi si sarà commosso davanti a Sam che si carica in spalla l’inutile Frodo pur di tenere fede al suo giuramento, chi si sarà fomentato quando la foresta di Fangorn si è risvegliata per attaccare le fabbriche di Isengard, chi avrebbe voluto galoppare al fianco di Theoden Re durante la sua carica suicida per ricacciare l’oscurità a calci in culo lì da dove era venuta.
Peter Jackson, dileggiandosi sia dei talebani della fedeltà assoluta che dei sostenitori della libera interpretazione artistica, aveva ben chiara una cosa: adattare significa capire che testo e video sono due mezzi diversi, con regole diverse e quindi ciò che rende sulla carta potrebbe risultare irricevibile sullo schermo, e viceversa.
Prendiamo ad esempio il personaggio di Tom Bombadil. Su chi/cosa/perché sia Tom Bombadil sono stati scritti scaffali interi e tuttora non c’è una visione “ufficiale”. Fissare una tale figura sullo schermo avrebbe voluto dire sottrarla alla soggettiva interpretazione che la lettura dà e consegnarla a quella standardizzazione che, volente o nolente, accompagna lo spettacolo visivo. Ergo, eliminare l’enigmatico personaggio tout court è stata una mossa non solo astuta ma anche obbligata per poterne preservare il mistero e quindi per rispettare il testo che fa della sua ambiguità la base per uno dei capitoli più amati del libro.
Ma meglio ancora è il pre-finale anti-climatico del romanzo: i protagonisti tornano finalmente a casa ma un colpo di coda di quelle forze del Male che erano sopravvissute li costringe a cimentarsi in un’ennesima avventura. Nel testo la vicenda viene risolta con sbrigatività, pare quasi che Tolkien si fosse stancato di scrivere quando invece è la stanchezza dei personaggi quella che traspare, o meglio la loro crescita: niente è più uguale a prima, l’esperienza li ha induriti e tutto è diventato una banalità, un’ennesima bega da dover risolvere senza anima perché quella la si è persa strada facendo. Personalmente penso sia una delle parti più interessanti e mature del romanzo, ma come trasportare questa chiosa malinconica in modo che fosse comprensibile? PJ, capita l’impossibilità di inserire pochi minuti di guerriglia urbana dopo un film di 3 ore, riduce il tutto ai quattro eroi seduti intorno ad un tavolo, quello stesso tavolo dove avevano festeggiato prima di partire e a cui hanno sognato di tornare per tutta la durata del loro viaggio. Ora ci sono, eppure non è come se lo ricordavano: c’è quasi imbarazzo, nemmeno si guardano in faccia e ognuno di loro è chiuso con i propri demoni. Ognuno è diventato adulto.
In una sequenza di pochi secondi è racchiuso lo stesso messaggio raccontato in 40 pagine. La forma è diversa, il significato è lo stesso. È la magia del Cinema.
Insomma, Il Signore degli Anelli è stato tante cose: un trionfo di pubblico e di critica, una saga in grado d’imprimersi nell’immaginario collettivo come solo Star Wars aveva saputo fare prima, uno di quei film che diventano fenomeno culturale prima ancora che cinematografico.
Ma é soprattutto un film intimo pur essendo immenso, una dichiarazione d’amore da parte di un fan verso un’opera che aveva segnato la sua vita ben prima di farlo diventare il primo neozelandese a essere conosciuto oltre i patri confini.
Facendo questo film Peter Jackson cercò di rispondere a un’esigenza personale di condivisione, perché lui aveva goduto di una visione e credeva che quella visione potesse fare di questo Mondo un posto più piacevole anche per noi. Prima ancora di produrre un film che piacesse alla gente, si preoccupò di fare un film che piacesse a lui, assumendosi tutti i rischi che ciò avrebbe comportato. E forse la chiave del suo successo è stata proprio quella di aver fatto trapelare quest’amore senza temere che qualcuno potesse non ricambiarlo.
Non so se il Cinema mainstream abbia definitivamente abbandonato quest’approccio perché soffocato dalla smania di piacere a tutti, ma oggi, in un’epoca di film studiati a tavolino, di fredde operazioni di marketing in cui i sentimenti sono qualcosa da evitare perché personali e quindi rischiosi di sottrarre anche un solo biglietto ai guadagni finali, un film come questo sarebbe rivoluzionario.
In omaggio per esservi sorbiti tutto ’sto pippone, uno dei piú bei video dell’interweb: