"Così mai cesserà di prodursi una cosa dall’altra, e la vita non è data in possesso ad alcuno, ma in uso di tutti." Sarà davvero così? Dal pensatore latino Lucrezio, uno spunto, in chiave letteraria, sui cambiamenti del clima ed il rapporto tra uomo e natura.
Ho scelto, in questi duri giorni di montagne ferite, alberi caduti e strade distrutte, di tradurre un passo del lucreziano De Rerum Natura (III, 950 – 974).
[…] Grandior hic vero si iam seniorque queratur
atque obitum lamentetur miser amplius aequo,
non merito inclamet magis et voce increpet acri:
‘aufer abhinc lacrimas, baratre, et compesce querellas.
Omnia perfunctus vitai praemia marces;
sed quia semper aves quod abest, praesentia temnis,
imperfecta tibi elapsast ingrataque vita,
et nec opinanti mors ad caput adstitit ante
quam satur ac plenus possis discedere rerum.
nunc aliena tua tamen aetate omnia mitte
aequo animoque, age dum, magnis concede necessis?’
iure, ut opinor, agat, iure increpet inciletque;
cedit enim rerum novitate extrusa vetustas
semper, et ex aliis aliud reparare necessest.
Nec quisquam in baratrum nec Tartara deditur atra;
materies opus est, ut crescant postera saecla; quae tamen
omnia te vita perfuncta sequentur;
nec minus ergo ante haec quam tu cecidere cadentque.
Sic alid ex alio numquam desistet oriri
vitaque mancipio nulli datur, omnibus usu.
Respice item quam nil ad nos ante acta vetustas
temporis aeterni fuerit, quam nascimur ante.
hoc igitur speculum nobis natura futuri
temporis exponit post mortem denique nostram.
(De Rerum Natura – III, 950 – 974)
“[…] Se ora un vecchio decrepito si lagnasse e lamentasse l’incombere della morte rattristandosi piu del giusto, non avrebbe ragione la natura di gridare ed insultarlo più cruda? “Via le lacrime, vecchio furfante, frena i tuoi piagnistei. Già hai goduto ogni bene della vita, marcisce il tuo corpo. Ma poiché sempre aneli ciò che è lontano e disprezzi il presente, la vita ti sfugge imperfetta e sgradita e la morte, senza che tu te ne avveda, sta vicina al tuo capo prima che sazio e appagato del mondo tu possa andartene. Ma lascia adesso tutto ciò che alla tua età non si addice e cedi serenamente ai tuoi anni: è necessario”. A buon diritto, io credo, accuserebbe, a buon diritto biasimerebbe e rimprovererebbe. Cede sempre il suo posto l’antico estromesso dal nuovo, ed è legge che tutte le cose si rinnovino l’una dall’altra; nessuno mai scende nell’oscuro abisso del Tartaro. Occorre materia perché crescano le stirpi future; e, tuttavia, queste consumata la vita seguiranno la stessa tua sorte e non meno di te son cadute prima d’ora e cadranno. Così mai cesserà di prodursi una cosa dall’altra, e la vita non è data in possesso ad alcuno, ma in uso di tutti. Volgiti ad osservare ugualmente come nulla sia stata per noi l’antichità dell’eterno tempo trascorso prima che noi nascessimo. Questo è dunque lo specchio in cui natura ci presenta il tempo che, al fine, seguirà la nostra morte.”
Quanta paura assale, secondo Lucrezio, la vita dell’uomo: timori legati a convinzioni sbagliate, false credenze, unite all’incapacità di scorgere la realtà della Natura. È proprio quest’ultima a prendere parola, rivolgendosi con crudezza al genere umano, mostrandogli come la morte sia necessaria per la vita e che quindi non abbia senso temerla.
La Natura non ha sembianze o volto: è una voce che irrompe possente, spazzando il campo da ogni debolezza. È nell’ordine delle cose che il vecchio sia soppiantato dal nuovo: è necessaria materia perché forme di vita nuove possano generarsi. La morte è in questo senso parte della vita, che non è possesso privato ma bene comune, concesso, insieme, a tutto il cosmo vivente.
“Sic alid ex alio numquam desistet oriri
vitaque mancipio nulli datur, omnibus usu.”
“Così mai cesserà di prodursi una cosa dall’altra,
e la vita non è data in possesso ad alcuno, ma in uso di tutti.”
Pare quindi che Lucrezio consideri questo processo imperituro; non poteva immaginare d’altronde che, nella perpetua competizione tra physis e techné, il meccanismo potesse incepparsi. In ogni dove vediamo che l’ondivago equilibrio perpetuato dalla natura si è sbilanciato: l’uomo, che infimo è emerso da un gruppo di primati nelle savane africane, imbracciata la possente tecnica, si è scordato d’essere utente passeggero delle risorse di Gaia ed ha iniziato ad ucciderla.
Ciò che vediamo oggi è Physis che urla sotto il fuoco delle fiocine della cecità umana. È ancora possibile, però, la conquista d’una ritrovata armonia: non può esistere infatti lotta tra naturale ed artificiale se, con la fine della prima, crollerebbe inevitabilmente anche la seconda.
Ricordiamolo con le parole di Giuseppe Ungaretti, capace di parole di luce pur immerso nel buio d’una trincea alpina, quando intorno era solo la morte (da I fiumi, 1916).
“Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell’Universo
Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia”