Jungle | Un film troppo impegnato a strisciare nel fango per far caso ai tramonti
Regia: Greg McLean | Anno: 2017 | Durata: 116 minuti
Per parlare di Jungle, mi serve una premessa: non so in che rapporti siate con Into the Wild. Io lo detesto.
Ci ho provato a farmelo piacere, giuro. Ma no, sarò scemo io ma proprio non ce la faccio, non riesco ad empatizzare con la storia del ragazzino arrogante morto d’ignoranza.
Mitizzare e romanticizzare la Natura, la jungla, e approcciarla senza conoscerne i meccanismi e le leggi – o forse considerandosene immuni – alla ricerca di un fantomatico benessere che essa dispenserebbe verso i suoi figli come in una sorta di Giardino dell’Eden è l’ultimo peccato di noi figli dell’Antropocene. Il mito del buon selvaggio 2.0.
Ma la verità è che chi pensa di entrare in una foresta e di trovare uccellini cinguettanti che ringraziano il Sole o di raggiungere il Nirvana ascoltando il vento stormire tra le foglie è destinato a morire male. O quantomeno a farsela nei pantaloni.
Capirete quindi il mio disagio quando Jungle parte non con uno, ma con tre ragazzotti belli e ribelli – di cui il protagonista impersonato da Daniel Radcliffe (AIUTO) – che hanno deciso di mollare tutto per scoprire sé stessi e conoscere la vera anima del mondo a dispetto di quei babbioni chiusi negli uffici a fare vite su cui nessuno farà mai un film.
Poi però il film continua, e io mi sono rilassato.
Greg McLean, che è australiano e quindi per antonomasia matto, decide di riprendere Into the Wild per farlo diventare quello che sarebbe dovuto essere: Jungle è un survival movie in cui non c’è tempo né energia per riflettere di filosofia perché là fuori anche una pioggia può fare rima con “fine della vita”…guardate voi se ci voleva un australiano per ristabilire l’ordine.
Tre ragazzotti dicevo (Alex Russell, Joel Jackson e Daniel Radcliffe – ripeto, AIUTO) per i quali gli Hare Krishna erano troppo inflazionati e quindi invece che in India – nota meta dei cercatori di sé stessi – vanno in Bolivia. Lì si incontreranno in uno di quegli angoli “rurali, non toccati dal turismo di massa” (così in genere recitano le guide) e decideranno di andare ad esplorare la giungla scortati da un tenebroso figuro (Thomas Kretschmann*) conosciuto al bar. Un ottimo piano.
Dopo circa 10 metri di cammino nella selva (Jungle!) iniziano a capire che le cose non sono proprio come in quel documentario della National Geographic che avevano visto ubriachi di noia dal salotto delle loro accoglienti magioni: uno comincia a piangere e non la finirà più, l’altro si fa andare bene ogni cosa pur di non ammettere di aver fatto una cazzata, l’altro ancora (indovinate chi) non sa bene che pesci prendere e quindi si guarda intorno confuso.
La prima metà di Jungle passa che è una bellezza tra vari siparietti che ci fanno percepire l’assurdità del tutto: dai nostri paladini dell’avventura che scappano davanti a una falena entrata nella tenda, a lezioni di filosofia propinate dalla guida che per tutto il tempo non si capisce quanto ci faccia o ci sia, se ci si possa fidare o se li voglia giustamente gabbare. Proprio lui è il vero protagonista di questo primo tempo. Sparando frasi sensazionalistiche non si sa se per impressionare gli altri o perché davvero ci creda, Thomas Kretschmann si ritaglia un personaggio in bilico tra il rude esperto, l’inadeguato ciarlatano e il pazzo omicida.
Con la seconda metà invece, si entra nel Cuore di Tenebra.
Daniel Radcliffe si trova da solo, in compagnia di poche cianfrusaglie, dei vecchi ricordi e di bizzarre allucinazioni a dover fronteggiare la terrificante – e realistica – foresta. Il regista di Jungle ama indugiare sulle sofferenze del povero ragazzo, si diverte come un matto a farlo precipitare da una situazione scomoda ad una peggiore accompagnando il tutto con più di una soluzione comica a spezzare la tensione e a farci ridere di lui e della vicenda. Perché è chiaro che tolte tutte le assurde menate filosofiche, quella di avventurarsi nella foresta con lo stesso spirito con cui andiamo al parco la domenica è un’idea talmente ridicola da risultare comica. Vi lascio solo immaginare la faccia di Daniel, con la sua perenne espressione da bambino a cui lo zio ha rubato il naso, nell’affrontare tutto ciò.
È un film sul raggiungimento della consapevolezza: la consapevolezza di aver fatto una cazzata e di doverne venire fuori, non per forza rinnegandola ma di sicuro non accettandola spendendo l’estremo anèlito ad incidere frasi romantiche nel legno. Perché insomma, se si sta morendo in mezzo al fango con i piedi divorati dalla cancrena e i vermi che ti fanno il nido nel cervello (o di fame nella taiga dell’Alaska) anche andare a giurisprudenza come voleva paparino sembra un’opzione da riconsiderare.
Chiariamoci, io non vi voglio dire che Jungle sia un bel film (né tantomeno consigliarvi di andare a giurisprudenza). È un film senza fronzoli, quasi banale: regia anonima, trama semplice, colonna sonora non pervenuta, recitazione Daniel Radcliffe. Eppure è proprio così che dovrebbe essere per un film che vuole dare risalto alla magnifica, terrificante ed imparziale durezza della Natura. Soffermarsi altrimenti su scenari e tramonti struggenti che ti fanno venire voglia di dire “vorrei essere lì” è un fallimento in partenza che riduce la Natura ad una mera cornice, uno scorcio bucolico che esiste solo nelle nostre menti. Ma la verità è che non c’è tempo per ammirare la bellezza del tramonto quando si deve lottare per sopravvivere.
Non venitemi a parlare mai più di Iñarritu o di Malick per piacere, la foresta ha un nuovo cantore.
* Ah, ne approfitto pure per proporvi un nuovo drinking-game: d’ora in poi ogni volta che in un film riconoscerete qualcuno che avete giá visto in un film Marvel, cicchetto. Pronti? Bene, Thomas Kretschmann c’è! Bevete.
hai parlato proprio bene!!! Anche io detesto Into the wild per il tuo stesso motivo!!!
E proprio come dici tu qui la natura è la vera protagonista