La fotografia come un pugno in faccia | World Press Photo Exhibition
Un enorme rinoceronte bianco, ferito e sofferente, giace drogato in un angolo, gli occhi bendati da un grande fazzoletto scarlatto. Non siamo, però, in quel Botswana dove questi animali in pericolo d’estinzione – i cui corni possono essere venduti per decine di migliaia di euro – vengono rilasciati, liberati dall’incubo del bracconaggio. Siamo, a dire il vero, lontani migliaia e migliaia di kilometri dal continente africano nella sua interezza. Le pareti altissime della chiesa medievale che accolgono la fotografia di questo rinoceronte sono quella della Nieuwe Kerk, nel cuore di Amsterdam. E questa è l’edizione 2018 della World Press Photo Exhibition.
A spiegare come una fotografia possa dire più di mille parole sono solitamente i ghostwriter dei Baci Perugina o la gente di mezza età che ha da poco scoperto il magico mondo dei social network. Eppure, avanzando nell’aria fresca di questa chiesa del IV secolo, lasciandosi guidare dal senso innato di un’esposizione fotografica che narra – attraverso gigantesche, meravigliose fotografie stampate su pannelli sparsi qua e là – il racconto di un anno di umanissime vicissitudini, parole meno scontate sfuggono alla mente. Le foto in esposizione sono 160, i fotografi che si celano dietro di esse 42. Il risultato è un pugno in faccia direttamente da quella vita reale, cruda, che si snoda lì fuori mentre noi – anche con tutte le migliori intenzioni del mondo – fatichiamo a star dietro al costante flusso di notizie che scorre sotto ai nostri occhi.
A comunicare già come la fotografia possa essere, e sia, la cartina tornasole dell’epoca in cui viene scattata è già il pannello che dà il benvenuto ai visitatori all’inizio della mostra: la breve storia, in immagini, della World Press Photo dell’anno, dal 1955 al 2015. Cinquant’anno di storia della fotografia, sì, ma anche della razza umana. Una visione d’insieme che sconcerta, quasi. A sfilare sono foto iconiche – talvolta sfocate, confuse, magari in bianco e nero, ma potentissime – come quella della bambina nuda che corre via disperata da un attacco con il napalm in Vietnam, o quella dell’uomo che si erge di fronte ai carri armati in Piazza Tienanmen. Il silenzio, nella vecchia chiesa, è di tomba. A essere riveriti, però, sono il coraggio e la passione di fotografi e giornalisti che hanno immortalato, anno dopo anno, il volto contraddittorio dell’umanità.
In mezzo trovi quelle storie costantemente all’ordine del giorno – le migrazioni ed il terrorismo, la guerra e la distruzione – così come quelle passate quasi sotto silenzio, forse rilegate in una pagina secondaria della nostra memoria se non fosse per le eccezionali, pungenti fotografie che vanno ad illustrarle. Stanno, fianco a fianco, come se a dividerle, là fuori, non fossero montagne ed oceani, le vite delle persone transessuali che viaggiano fino al sud-est asiatico per effettuare la transizione ed uno stupendo, bizzarro pesce volante.
Convivono sotto le vetrate colorate di un luogo religioso – trasformato, ormai da decenni, in un centro culturale di eccezionale importante per la capitale olandese – una vecchia donna sola, seduta a fissare il vuoto nella polvere di un deserto iracheno, un neonazista statunitense addormentato con un cagnolino tra le braccia ed un’aquila che fa banchetto di resti di carne trovati nella spazzatura. Ad accomunare soggetti tanto diametralmente lontani sono, in primo luogo, tre principi basilari su cui l’associazioni olandese che dal 1955 organizza il più prestigioso concorso mondiale di fotogiornalismo si fonda per motivare le proprie scelte: accuratezza, trasparenza, diversità. L’eccellenza dell’immagine, la profondità del messaggio, la bellezza o profondità della storia che viene catturata sono, poi, i restanti ingredienti di una ricetta che da più di cinquant’anni ispira il modo di fare fotogiornalismo.
Al passo con una professione che, per far fronte a nuovi tempi e nuove tecnologie, esplora mezzi nuovi, da qualche anno la World Press Photo competition si è aperta ad una nuova sfida. Alla mostra, si può esplorare seduti tranquillamente ad un tavolo allestito giusto per fare dell’esperienza digitale una scoperta: è il Digital Storytelling Contest, uno spaccato entusiasmante nelle ultime frontiere del giornalismo immersivo ed interattivo. Per la categoria immersive storytelling, i vincitori di quest’anno catapultano in Antartica con il video in 4D “Under a cracked sky“, del New York Times; la narrazione dettagliata e sconvolgente della vita senza elettricità nelle città portoricane con “Sin Luz: life without power” del Washington Post; ed il drammatico racconto dell’esodo Rohingya in Myanmar, sempre del NYT.
Quando pensi che il tuo cuore stia per franare, come in quella scena bellissima con la busta di plastica in American Beauty, a dare il colpo di grazia è una piccola stanza scura, quasi al centro della chiesa. Lì dentro vengono riprodotti all’infinito, in un silenzio che puoi spezzare mettendo alle orecchie una delle grosse cuffie che pendono dal soffitto, i vincitori delle categorie video short e long form. Puoi starci ore, in quella stanzetta, se vuoi. Io sono resistita una quindicina di minuti, incantata davanti ad una storia d’amore, ricordo, rimorso e perdono – di Olocausto, salvezza e morte: I have a message for you, seconda classificata tra i long form. Poi il mio cuore è franato. Doveva succedere, alla fine di un pomeriggio passato a farsi a prendere a pugni in faccia da una realtà più immensamente, terribilmente compressa di quanto una persona, da sola, possa mai contemplare.
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World Press Photo Exhibition 2018 è alla Nieuwe Kerk di Amsterdam (Gravenstraat 17) fino al 22 luglio 2018. Qui trovate le altre tappe dell’esposizione. In Italia, la trovate al Magazzino alle Zattere di Venezia dal 31 agosto al 30 settembre 2018, al Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara dal 5 ottobre al 4 novembre 2018 e all’ExCaserma di Gavoi, in Sardegna, dal 27 ottobre al 18 novembre 2018.