The Man Who Killed Don Quixote, la leggenda di Terry Gilliam
Per chiunque conosca il regista inglese Terry Gilliam ed il suo cinema, non potrà che commuoversi nel leggere queste parole. Finalmente il film è completo, Quixote vive! L’idea iniziale dello script ha grossomodo la mia età anagrafica; per la prima volta, le riprese iniziarono 20 anni fa, per poi finire rovinosamente con una inondazione dopo soli sei giorni di lavoro; il cast è cambiato almeno tre volte: un Don Quixote è addirittura morto, nel frattempo (il film è dedicato a John Hurt, infatti); nel frattempo è stato realizzato un documentario sulle disavventure della produzione, Lost in La Mancha (quanti film hanno un documentario PRIMA della loro reale uscita?). E ora, dopo tutto questo tempo, The Man Who Killed Don Quixote è arrivato da noi!
È molto difficile scindere il film dalla sua storia di produzione e dal suo regista. Vedere il Quixote di Gilliam è come avere fra le mani un miracolo cinematografico, di quelli che ti fanno subito sentire bene. L’idea non è mai stata abbandonata dal regista, ma ci sono comunque voluti più di venti anni per raggiungere un termine. E dopo un periodo così lungo, le aspettative sono alle stelle (o sotto i tacchi). Non è dunque facile mantenere l’oggettività su un film che aspettavamo come la lettera di quella persona cara e lontana nella quale non credevamo forse neppure più.
La storia non è solo una attualizzazione del racconto di Don Chisciotte di Cervantes, ma cerca di dare un senso proprio alla narrazione. Un rampante regista di pubblicità ritrova un vecchio che crede di essere realmente Don Quixote e come tale si comporta. Il regista (Adam Driver) diventa sua malgrado lo scudiero Sancho e segue il vecchio matto in una serie di strampalate avventure. Queste si dipanano a cavallo fra il nostro mondo ed il mondo che vive nella testa del vecchio. A tratti è difficile capire chi stia sognando e chi invece è sognato, e cosa sia reale, in un mondo in cui la realtà sembra essere poco (se non per nulla) importante. E proprio il rapporto fra realtà e finzione si intreccia lungo tutto il film. Nella prima parte, il realismo prevale anche nelle fantasie del vecchio cavaliere, vissute appunto come completamente reali. Al contrario, nella seconda parte del film assistiamo ad un capovolgimento di fronte: le vicende narrate sono reali, ma vengono filtrate attraverso la lente deformante della fantasia (forse a tratti della follia), che ne altera completamente i contorni e la veridicità. Questa seconda parte rischia in più occasioni di scivolare verso la confusione, ma Gilliam riesce a tenere salde le redini del film anche quando questo diventa un allucinato viaggio nella mente alterata dei protagonisti, girato nei chiostri del Convento di Cristo di Tomar (come mani non ci abbiamo ancora fatto un TRIP? NdS). A tratti, però, sembra che il protagonista reale sia Sancho/Driver e che il vecchio Don Quixote altro non sia che il trigger che fa partire l’avventura. Ma forse è giusto così: dove Quixote è la fantasia straripante nella mente razionale del suo scudiero, cioè di tutti noi.
Oltre ad uno spaesatissimo Adam Driver, che accetterà pian piano il suo ruolo sia nella vita, che nella finzione, vero mattatore del film è uno strepitoso Jonathan Pryce, Don Quixote. Siamo di fronte ad una interpretazione magistrale: Quixote vive ed è Pryce, senza dubbio. In lui ritroviamo l’aspetto dimesso, sgangherato, tramandatoci da mille illustrazioni; la magrezza quasi eccessiva; i vestiti rattoppati e l’armatura sbilenca fatta di pentole; e poi gli occhi allucinati, lo sguardo di chi vede tutto ma solo come vuole lui. Occhi capaci di trovare l’avventura anche dove sembra esserci solo deserto.
Il film non risparmia neppure l’aspetto patetico della figura di Don Quixote, anziano, matto, scappato di casa. Tuttavia, questo non inficia la fruibilità del film e la bellezza del personaggio, sorta di alter-ego del regista e del film stesso, che ci spinge a seguire la fantasia anche quando questa sembra pura follia (come fare un film lungo 25 anni). E soprattutto ci ricorda che, come tutte le grandi narrazioni, anche il personaggio di Cervantes è immortale e per quante volte potremmo provare ad ucciderlo, lui sempre tornerà a vivere.
Voto: 7