Il Trono Vuoto | Roberto Andò
Prima di tutto, Il trono vuoto è un bel titolo. Il suo significato viene spiegato nel libro stesso, quasi alla fine: dopo la Rivoluzione francese, fu proposto di utilizzare quale simbolo per la cerimonia del quattordici luglio un trono vuoto, appunto, che rappresentasse da una parte un omaggio al popolo sovrano, e dall’altra un simbolo, una raffigurazione dell’abisso misterioso del potere. E proprio un abisso evoca l’aggettivo “vuoto” dopo la lettura; ma un abisso fragile, incerto, melmoso, da cui a fatica ci si riesce a liberare.
Questo libro infatti parla di politica, ed è ambientato in un tempo in cui la politica sembra aver smarrito non soltanto il proprio ruolo originario di guida delle azioni umane, ma qualunque ruolo nel mondo: i nostri giorni. E il protagonista, emblematicamente, non è uno solo, bensì viene sdoppiato in due fratelli gemelli, incapaci di riempire le pagine ognuno con la propria personalità singola ma legati l’uno all’altro in una necessaria compensazione: da una parte Enrico, il segretario del partito d’opposizione che improvvisamente, nel mezzo di una accesa campagna elettorale che lo vede in calo nei sondaggi, fugge senza – quasi – lasciare traccia; dall’altra Ernani, il professore, chiamato dal partito a sostituire il fratello, che disinvoltamente lo impersona innescando un passo a due che volteggia fino all’ultima riga e che ha esiti inaspettati.
Le caratterizzazioni dei personaggi risultano volutamente tutte pallide e sbiadite, a cominciare da Enrico, un uomo offuscato che pare Robin Williams in Deconstructing Harry quando è “fuori fuoco” e che non troverà redenzione; l’unico i cui tratti ci vengono disegnati in maniera più vivida – intelligenza brillante, vasta cultura, carattere pacato ma deciso – e l’unico che sembri in grado di essere compiutamente “politico” è Ernani, il quale non soltanto è del tutto estraneo al partito e a ciò che gravita intorno ad esso, ma è anche segnato da una malattia mentale che lo ha costretto ad un ricovero psichiatrico durato molti anni.
Chi assume le vesti di guida è dunque un pazzo, ma anche un uomo di sapere, di cultura: proprio la cultura, infatti, è il mezzo attraverso cui Ernani veicola il repentino cambio di rotta del partito e la conseguente irresistibile ascesa nei sondaggi. C’è un passaggio molto bello in cui egli, dovendo per la prima volta parlare ai propri militanti durante un comizio pre elettorale, semplicemente declama una poesia di Bertolt Brecht, A chi esita, provocando una esplosiva reazione di gioia nel pubblico.
Alla bocca di Ernani l’autore, Roberto Andò, affida anche l’affresco della politica di oggi, che viene pennellato con un certo distacco ma che nonostante ciò si disvela in tutta la sua ineluttabile tragicità, non lesinando critiche feroci.
“Il crimine e la politica hanno stabilito un nuovo patto, l’assassino e la vittima sono la stessa persona. La perfezione” dice il filosofo in uno di questi passaggi.
“In Parlamento ci sono la mafia e la camorra, e c’è il politico che fa da tramite per i loro affari, ma, ed è qui il bello, c’è anche il loro avvocato difensore. E’ la prima generazione di politici postbellici ad avere immaginato un ciclo in cui sono rappresentati tutti gli anelli della catena, dal delitto alla sua sparizione legale. La Democrazia Cristiana non era arrivata a tanto. C’era una tresca continua con il crimine ma loro, nei limiti del possibile, cercavano di tenerla fuori dal Parlamento. Ricordi quell’avvertimento di La Rochefoucauld? Si fa del bene per poter impunemente continuare a fare del male. E‘ tutto lì il problema, oggi. In quella parolina. Impunemente.” Le parole di Ernani suonano, in generale, tristemente familiari al lettore.
Enrico, il segretario vero, segue invece un percorso molto più intimista e personale. Il gemello in fuga dalla propria apatia e dalla propria non-vita (“La politica è il mestiere di chi non vuole vivere”) affronta lungo tutto il romanzo una profonda autoanalisi da cui uscirà sconfitto, senza una soluzione ma nonostante ciò quasi rinfrancato dalla raggiunta consapevolezza di se stesso. La vacuità della politica è la sua vacuità, senza speranza, come si avverte in quest’altro passaggio:
“Lui, invece, poteva ben dire di non aver mai vagheggiato rinascite, forse neppure adesso che si era deciso a fuggire da loro. E non si poteva dire che la sua vita non fosse stata altrettanto generica. Affidata al nulla, in ogni campo. Forse per lui la politica era proprio quel nulla. Non sempre, ma ora certamente sì. Che cosa definiva il politico, oggi, se non quel contatto sensuale col nulla? Il nulla che si infiltrava in ogni proposito, buono o cattivo che fosse, erodendone ogni sostanza. Per una misteriosa alchimia tra il talento e l’indolenza che ne caratterizzava l’agire, lui aveva saputo approfittare di quel nulla, attingendovi l’energia che tutti, anche i nemici, gli avevano sempre riconosciuto. Un’energia opaca, molle, infinitamente duttile. Un’energia direttamente proporzionale al nulla”.
Il trono vuoto è dunque un libro con due punti di vista uguali e contrari, è un caleidoscopio che facendo girare gli stessi vetri mostra figure differenti, è un romanzo sulla politica – sì, è possibile – che parla anche di amore, dell’amore mai dimenticato dei vent’anni di Enrico che guarda caso è stato anche l’amore di suo fratello Ernani. Che parla anche di vita. Un bell’esordio letterario per il regista Roberto Andò, dedicato probabilmente a tutti gli sperduti di quest’epoca, a chi non sa dove guardare, a chi vorrebbe fuggire. A chi esita.
Ginevra Ripa
Titolo | Il trono vuoto
Autore| Roberto Andò
Editore| Bompiani
Collana| Narratori Italiani
Anno| 2012
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