Alt-J, This Is All Yours
La lettera greca delta, scritta in maiuscolo, “∆” è il nome che quattro ragazzi di Leeds (West Yorkshire) decidono di dare alla propria band nel 2007. Contrariamente alle aspettative, il simbolo è da pronunciarsi “alt J” che nelle tastiere britanniche del Mac rappresenta la combinazione di tasti da digitare per ottenere, appunto, la lettera greca.
Per altro, non serve aver masticato molta matematica per ricordare che la lettera delta maiuscola indica solitamente una variazione, un cambiamento, un “delta”, appunto, come quello avvenuto nelle vite dei quattro studenti inglesi al momento della nascita del gruppo. Oppure, ed oggi possiamo dirlo con più certezza, come il cambiamento che gli Alt-J hanno determinato nella storia della musica internazionale.
Dopo un’attesa di circa due anni e l’uscita dal gruppo di Gwil Sainsbury (chitarrista/bassista), nell’autunno del 2014 gli Alt-J sono tornati sotto i fari mediatici con This Is All Yours, il loro secondo album che proprio in questi mesi stanno portando in tour in tutto il mondo. Inutile dire che sin dai primi ascolti si percepisce il peso del successo sia a livello di critica sia economico che la band inglese si porta appresso dopo An Awesome Wave, l’album che nel 2012 ne ha segnato un debutto a dir poco esplosivo, vendendo più di 300mila copie e facendo vincere agli Alt-J il prestigioso Mercury Prize.
“Celebrare la normalità”, come spesso hanno dichiarato di voler fare con la loro musica, non è affatto semplice per una band che si è trovata a (sop)portare la responsabilità dell’epiteto “nuovi Radiohead” (principalmente perché dopo questi ultimi pare che nessuna band inglese alternativa fosse riuscita a varcare i confini della Vecchia Europa). Gli Alt-J, invece, privi di un genere ben definito, tanto da aver costretto i critici a classificare la propria musica come genere “unico”, sono riusciti ad esportare anche oltreoceano il proprio stile, spaziando dall’indie-electronic all’alternative rock.
This Is All Yours è un disco che non si riesce ad afferrare al primo ascolto. La band inglese vuole raccontare l’alienazione dalla civilità, trascinandoci via dal caos della società moderna e guidando chi l’ascolta attraverso la figura di Nara, città giapponese famosa per i cervi che vivono allo stato brado.
L’album si apre con queste tre canzoni (Intro, Arrival in Nara e Nara) quasi cicliche da un punto di vista musicale sia per la scelta delle armonie sia per la presenza dei gospel che ricordano i cori delle messe afroamericane. In questo loop, letteralmente alienante, si percepisce che l’isolamento diventa meta e viaggio al contempo. Nemmeno il tempo di rendersene conto e inizia Every Other Freckle, per il cui video sono state proposte due versioni, una “boy” e una “girl”.
Trovate commerciali a parte, si tratta di un pezzo assolutamente nelle corde “indie electronic”, anche troppo, dal momento che è stato criticato proprio per la scarsa vena innovativa rispetto all’album precedente. Eppure, l’impatto acustico è notevole: provate ad ascoltarla e a non farvi risuonare per ore nella mente “Pull me like an animal out of a hole!”.
Tra le canzoni più riuscite dell’album sta sicuramente Hunger of the Pine, il cui titolo, come confermato in più interviste dagli stessi artisti, pare rimandi al dolore della mancanza di qualcuno che, talvolta, può essere un dolore fisico tanto quanto la fame. (Quasi inevitabile, a mio avviso, ripensare a Márquez che paragona i sintomi dell’amore a quelli del colera, ma non mi è permesso approfondire l’excursus in questa sede, ndr).
Si tratta di un moderno e sorprendentemente riuscito tributo ad un genere di donna ribelle e nuova nel panorama odierno, interpretato nella canzone niente di meno che da un campionamento di Miley Cirus che afferma “I’m a female rebel”. È probabile che gli Alt-J vedano in Miley Cirus il simbolo della ribellione delle giovani ragazze all’amore, che oggi puntano ad avere il controllo sul cuore dell’amato, che invece è quello che soffre. Il ribaltamento dei ruoli stereotipati dalla società moderna in questo pezzo di 5 minuti è disarmante, così come per l’amante (uomo) è netta la contraddizione del desiderio di ciò che fa male. Ma non è tutto!
A renderlo ancora più affascinante sono i versi in francese cantati sul finire del brano: “une immense Esperance a traversé la terre/ une immense Esperance a traversé ma peur”, che scopriamo appartenere al poeta romantico Alfred de Musset, che invita alla speranza dell’amore, tra l’altro citata anche ne L’Amante di Lady Chatterley di D.H. Lawrence. Dunque, pare che sentiremo parlare di Hunger of the Pine, dove un’icona pop viene inserita in uno stile multilingue che è tutto tranne che pop, in un crescendo orchestrale che accompagna la sofferenza dell’amore in un climax ascendente.
Notevole anche Warm Foothills, molto più folk, anche più del precedente album. Il carattere mite e le armonie rimandano inevitabilmente ai toni dei Mumford & Sons, con qualche aggiunta di flauto di pan e molto timpano nella batteria. In questo brano è forte il contrasto tra l’arrangiamento musicale quasi meticoloso e i testi che invece non esprimono nulla di preciso, evocando immagini e sensazioni più che qualcosa di concreto.
L’effetto è a dir poco frastornante, anzi, alienante. Ed eccoci all’apice del disco: The Gospel of John Hurt traduce in musica il tema centrale dell’alienazione, richiamando il protagonista di Alien, il celebre film di Ridley Scott. Ascoltandola è quasi impossibile non ripensare a Taro, un must da ascoltare del precedente album.
Che dire, da un punto di vista prettamente musicale, This is All Yours conferma quanto di buono fatto nel primo. Gli scettici devono ammettere che la ricerca di sperimentazione e la voglia di staccarsi di dosso ogni genere di etichetta cresce per gli Alt-J insieme ad un mix di più complesse armonie, di gospel e suoni folk che riescono magistralmente ad unire alla già nota (ed efficace) componente elettronica.
Forse il peso di un paragone troppo azzardato come quello con i Radiohead di Kid A (il cui ritorno, per altro, pare essere atteso proprio entro la fine del 2015), e la fatica di confermare le aspettative dopo il successo del primo album soprattutto nel difficile mercato americano, hanno portato a qualche scivolone commerciale come Left Hand Free che con un prevedibile e quasi banale riff riecheggia troppo i Red Hot Chili Peppers era-Frusciante, risultando come probabilmente l’unico pezzo davvero dolente in un album che, nel complesso, riconferma gli Alt-J come i maggiori esportatori di musica indie d’oltremanica.
14 Febbraio 2015, Mediolanum Forum di Milano: unica data italiana per non perdere il live di This is All Yours, Alt-J.
Artista | Alt-J
Album | This Is All Yours
Anno | 2014
Etichetta | Infectious Music
Bella rencesione! Ho trovato interessante la tua analisi di “Hunger Of The Pine”, il paragone con Márquez venne spontaneo anche a me. Ho provato un confronto tra questa canzone e il nuovo tormentone cinematografico “Revenant”, se vuoi dare un’occhiata: https://cheocchigrandi.wordpress.com/2016/01/22/dai-unocchiata-revenant-di-inarritu-vs-hunger-of-the-pine-degli-alt-j/
Ciao! Sono molto contenta che ti sia piaciuta e, soprattutto, di non essere stata l’unica a fare un -azzardato- rimando a Marquez! Grazie anche per lo spunto, ho letto con piacere il tuo paragone con The Revenant, davvero notevole, non ci avevo pensato!
Grazie della visita,
a presto!
F.
Grazie a te! A presto (passo spesso da queste parti) 🙂