Divagazioni sulla felicità | Una poesia di Sandro Penna, Cortázar ed una...

Divagazioni sulla felicità | Una poesia di Sandro Penna, Cortázar ed una innocente piantina di basilico

Il mare è tutto azzurro.

Il mare è tutto calmo.

Nel cuore è quasi un urlo

di gioia. E tutto è calmo.

(da “Poesie”, Sandro Penna, ed. Garzanti)

*

Ci sono cose che a pensarle mi vien subito voglia di essere felice. Una piantina di basilico in salute, ad esempio, è una di queste. I tetti di Oia (Santorini, Grecia) verso le sette di sera. Il gioco del mondo di Cortázar, poi, non potrei proprio escluderlo.

Se, per citare Felisberto Hernández, i miei pensieri non oscillassero sempre tra l’infinito e lo starnuto, forse sarei in grado di tessere un discorso più serio sulla vita e la felicità, ma tutto quello che riesco a dire è questo: ci sono cose che a pensarle mi vien subito voglia di essere felice. La mozzarella di Battipaglia, Castel del Monte, gli orecchini a forma di piccola rondine della signora che gestisce l’edicola sotto casa.

«Per un po’ di tempo ancora poteva continuare a essere, in segreto, se stessa.» Ogni passione spenta, Vita Sackville-West

Ognuna delle mie cose felici, ho notato, è una materia autonoma, uno Stato indipendente (e ha di solito colori gentili): non la collego a nessun periodo della vita, a nessuna persona, a nessuna conquista o sconfitta, nemmeno a me stessa. Vive di una sua bellezza interna, autopoietica. Come un bel quadro, o la pasta fresca. Sicuramente Freud vorrebbe contraddirmi, a questo punto, ma non può farlo, e questo mi basta.

Ognuna della mie cose felici mi struscia gli stinchi con grazia: mi commuove, ma senza ferirmi. Su tutto il resto invece – su ciò che potremmo definire le orgasmiche gioie e gli ingiusti dolori della vita – mette bocca la mia emotività. E l’emotività rovina sempre tutto: in ogni delizia infilza una croce, su ogni croce stende un velo di delizia. Cosicché è difficile, come in una partita a scacchi contro ciò da cui dipendiamo, dirsi davvero felici (o infelici) quando ci accade qualcosa. Ma immagino sappiate anche voi di cosa sto parlando.

«Oh!», esclamò Michel, «ecco un’esperienza fisica davvero divertente» Jules Verne

ph Luigi Ghirri

Quando ragiono tra me e me di questi argomenti, mi viene sempre in mente un appunto che Goliarda Sapienza scrisse sul suo taccuino nel maggio ’89 – «In compenso oggi Roma è stupenda. Compro shampoo e dentifricio lussuosi, asparagi e uva» – perché è una buona approssimazione filosofica, economica e architettonica di quello che vorrei dire a proposito dell’essere felici (vorrei che si notasse che in questi giorni sto leggendo Quando siete felici, fateci caso, di Kurt Vonnegut).

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E se poi penso a Roma, e al sole, penso subito ad una delle cose per me più felici di tutte quelle nominate messe assieme: penso subito a Sandro Penna.

Poeta romano (di adozione, visto che nasce a Perugia nel 1906), amico di Pasolini e Guttuso, anima gentile: scrive poesie impressioniste, macchiaiole, che sono musiche “semplici”, appunti di taccuino per fermare un momento, un istante. Scrive poesie che si pronunciano sulla vita con calma, a voce bassa, e camminano spesso su muretti al sole. Scrive poesie, e diventa uno dei più grandi poeti del Novecento.

Lo cerco, cerco le sue poesie, quando ho bisogno di ricordarmi di come la felicità, oltre a saper essere una scossa violentissima rosso Caravaggio o giallo Rothko, sia qualche volta un semplice, non-ostile non-pungente non-ferino, nulla azzurro: non il nulla di cui è fatta la noia, che sa invece riempirsi di cose sgradevolissime, ma una benedetta calma del cuore. Che non si svuota del dolore, della frustrazione, della solitudine – in Penna ci sono anche Goya, Schiele e Hopper – ma a tutto risponde adagio, cercando il puro piacere, un bianco taccuino, il sole.

«Se nel momento in cui spalmi il burro sul pane riesci a collegare quell’insieme che comprende il tuo appetito, gli ingredienti citati e un coltello con, per esempio, una frase di una sonata di Chopin o con uno di quei ricordi ricorrenti che per qualche ragione sono ricorrenti, ti renderai conto che a margine delle associazioni analogiche si apre una seconda opzione, quella di considerare il prodotto come realtà arricchita nel senso in cui i fisici parlano di uranio o plutonio arricchito. Se insisti, se tutti i tuoi atti-vita di quell’ora o di quel giorno si producono all’interno della tendenza a uscire da te stesso, a collegarti ad altre manifestazioni fisiche o psichiche come già sapevano fare i romantici più visionari, immediatamente il risultato sarà che nelle ultime tappe di questa sequenza arriverai a una specie di alveare poroso, una sorta di grandissimo camino con sbocco nel reale appena dirai: “Che bella bionda!” o ti allaccerai le stringhe delle scarpe.» Il giro del giorno in ottanta mondi, Julio Cortázar

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Di certo non vorrei vivere, come invece scrive Penna, addormentata entro il dolce rumore della vita: mi basterebbe qualche pisolino ogni tanto. Far sopravvivere una piantina di basilico per più di una settimana. Qualche volta saltare un giro di giostra, per vomitare in un angolo, bere un bicchiere d’acqua e riposare stremata sul marciapiedi accanto all’addetto al carretto dello zucchero filato, e poi risalire.

Non vorrei una vita intera di contemplazione, di morbida estraneità: non vorrei che quel nulla azzurro mi inghiottisse per sempre. Vorrei accorgermi, però, che qualche volta, quando non sta accadendo nulla, sta accadendo tutto. E che questo, questa calma questa tregua questo silenzio clemente, questa bellezza indipendente, possono essere una forma autentica, anche se alternativa, di felicità: una piccola cosa felice, autopoietica – come il mare, il rumore dell’affettarsi del pane – che dal mondo esterno invade l’interno come un’onda calda. Ed è, quasi, un urlo di gioia.

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