Gomorra | di Napoli, responsabilità e talento artistico
Anno: 2014 – in produzione | Numero di episodi: 36 | Durata: 45–55 minuti (episodio)
Premessa: sono napoletano.
Direte voi, che ci frega? Niente, ma quando si parla di Napoli è sempre bene precisarlo. Poche cose sono più permalose di noi napoletani – forse solo il Dio del Vecchio Testamento ci batte – quindi volevo semplicemente rassicurare che non parlo di Napoli perché ci sono venuto in gita una volta e mamma mia che buona la pizza né perché l’ho affrontata per formazione politica (prima di scoprire che anche i meridionali votano).
Napoli è una delle città italiane più nominate, non solo a livello giornalistico ma mediatico in senso lato. Per dire, cercando “film ambientati a Napoli” su Wikipedia – unità di misura del terzo millennio – ho scoperto con un certo stupore che nel 2017 sono usciti 22 (VENTIDUE) film ivi ambientati. Non esistono altre pagine sotto la voce “film ambientati a [inserire città]”. La maggior parte di questi sono ovviamente prodotti dimenticabilissimi se non proprio brutti, ma quando invece uno ha delle qualità oggettive, ecco che il pubblico si schiera: da un lato quelli che gridano “sole, mare e mandolino”, dall’altro “la camorra, la munnezza, non rispettano i semafori”.
Era chiaro quindi che una serie TV in grado di portare agli occhi del grande pubblico un fenomeno delicato e complesso come quello della mafia napoletana non potesse sottrarsi al gioco di chi urla più forte.
Gomorra esce nel 2014 e, diciamolo subito, sbanca. Fa un successo di quelli che raramente si prevedono, vince premi, fa conoscere Stefano Sollima nel mondo (dirigerà il sequel di Sicario) e diventa uno di quei fenomeni – non credo a quello che sto per scrivere – “pop”, imprimendosi a fuoco in tutta la società e portando nomi come Genny Savastano o Scianel all’attenzione anche di chi non ha un televisore e vive nel Mesozoico.
Tre stagioni (ad oggi) che ci portano da Secondigliano a “giùnnapoli” – espressione puramente partenopea per indicare tutta la zona dal centro storico – in un tour della criminalità organizzata, esplorandone le varie facce e i vari rappresentanti, dai sicari ai boss, dagli spacciatori ai politici collusi.
E Napoli, quasi sempre uggiosa, fa da sfondo a questo teatrino. Non ci sono gli scorci del Vesuvio di Un Posto al Sole, né riprese di bambini che giocano a pallone negli stradoni di Scampia. È un set vuoto, un luogo abbandonato in cui i personaggi si muovono come spettri in una città fantasma.
Sollima gioca nel suo quando si tratta di dipingere la criminalità. Grazie ad attori che usano la veracità regionale e dialettale come cavallo di battaglia e a sbandati di strada la cui unica direzione recitativa è stata “va bene, ora però usiamo la pistola a salve”, l’intera operazione trasuda realismo nonostante i tratti volutamente estremizzati se non addirittura surreali. La fotografia ad esempio, con una palette di colori che prevede solo giallo e verde, tende a far sembrare tutto alternativamente patinato d’oro o immerso in una salamoia salmastra, una palude che porterà ogni cosa a sprofondare e da cui è impossibile uscire.
La prima stagione fu un fulmine a ciel sereno nello scenario televisivo italiano: a livello qualitativo e di maestranze operative negli ultimi 10 anni forse solo Romanzo Criminale, dello stesso team, è vagamente paragonabile.
Eppure se Romanzo Criminale era di simile pregio tecnico, la scrittura presentava ancora un approccio immaturo. Una delle caratteristiche di Gomorra – nonché una delle sue principali novità – è infatti la totale assenza di personaggi positivi o istituzionali. Romanzo Criminale dava ad esempio luce alla figura di un detective che quanto meno provava a fare il suo lavoro, e anche gli stessi protagonisti erano più ragazzacci sbandati per cui si provava un romantico affetto che veri e propri animali.
In Gomorra tutto questo non c’è. Nessuno è migliore dell’altro, non secondo canoni socialmente accettati almeno. Tutti, dal primo all’ultimo, agiscono non per un animalesco senso di ribellione ma proprio perché queste scelte sono oramai diventate il motore della società da cui i briganti di Romanzo Criminale cercavano di discostarsi. Il discostamento è avvenuto, Dio è morto e ora siamo nella giungla dove la violenza e la prevaricazione diventano l’unica risposta. O quello, o l’anonimato.
Ma la gente non ci sta ad essere anonima e forse proprio questo non dar voce a ciò che di buono c’è al mondo ha portato una significativa parte del pubblico a scioccarsi di come si potesse sopportare, apprezzare o supportare un prodotto così poco lusinghiero nei confronti di Napoli e della società in generale, accusandolo di qualsiasi crimine riscontrabile nella scala che va da “plagiare i giovani e votarli al male” a “dettare i gusti d’arredamento dei mafiosi”.
Vi ricordate l’orda di mamme inferocite o di politici turbati dall’ondata di violenza che un gioco come GTA* avrebbe certamente innescato? Ecco, tale e quale.
È avvilente – e anche vagamente offensivo – non poter leggere un qualsiasi articolo di cronaca nera senza trovarvi almeno un riferimento alla serie di Sollima. Non tanto per l’idiozia della teoria in sé, quanto per la semplicità con cui viene trattato (e archiviato) il problema: ci sono le baby-gang? Colpa vostra che guardate Gomorra! O peggio: la camorra esiste perché voi continuate a parlarne.
Parlare del peccato non rende peccatori e accusare qualsiasi forma espressiva di causare problemi dovrebbe farci allertare come marmotte, è una forma becera di deresponsabilizzazione nonché il primo passo verso la censura. È un attimo che poi ci troviamo in piazza a bruciare Guernica convinti che sennò alla gente venga voglia di bombardare la Spagna o che incolpiamo Melville dell’estinzione delle balene.
Da Roberto Saviano:
“Possono esistere soltanto racconti fatti male e racconti fatti bene. Si commette un grande errore quando si mettono in conflitto il racconto della bellezza e del talento con il racconto delle contraddizioni e della ferocia: sono racconti paralleli, che devono coesistere e non essere messi in conflitto l’uno con l’altro. Raccontare il male pretende talento, conoscenza della bellezza, capacità. […] Essere complessi è l’unico modo – ne sono persuaso – per creare una serie capace di attrarre pubblico che non vuole solo intrattenersi ma capire, sentire, cambiare”
* Per fortuna ci sono gli scienziati – ma si sa, quelli spargono i vaccini con le scie kimike!