Il più mancino dei tiri | Edmondo Berselli
Due sono i promemoria da tenere a mente quando si comincia a leggere Il più mancino dei tiri di Edmondo Berselli. Primo: nel libro non si parla di Mariolino Corso, il centrocampista (ala sinistra) della Grande Inter degli anni Sessanta il cui piede sinistro divenne così famoso da ispirare il soprannome di “piede sinistro di Dio” (e da cui prende spunto il titolo); o meglio, se ne parla all’inizio e alla fine, mentre lo si descrive nel bel mezzo di un’azione funambolica di non si sa quale partita e di cui non si può nemmeno conoscere la conclusione se non si arriva all’ultima riga dell’ultima pagina, e soltanto sporadicamente nei capitoli centrali; ed è tutto. Se dunque desideravate un’opera che raccontasse nei dettagli la figura, la carriera, le caratteristiche tecniche e al più la personalità del celebre giocatore (soprattutto voi, cari interisti) rimarrete delusi.
Secondo: tutto ciò che viene citato viene citato a memoria, senza l’aiuto di archivi, ricerche, almanacchi (sì, anche almanacchi: il libro è del 1995); e questo è importante perché una delle tesi sciorinate da Berselli è che solo quel che si ricorda conta. Prendendo spunto dall’episodio dello storico francese Fernand Braudel che, al buio di una baracca di prigionia durante la Seconda guerra mondiale, scrisse uno dei suoi saggi più celebri solo sulla base della sua memoria, senza poter consultare fonti o documenti, il giornalista non verifica né date, né nomi, né circostanze. E riesce con assoluto stupore (del lettore) a mettere in piedi una piccola mole di episodi non solo calcistici ma letterari, filosofici, politici: una sorta di trama fittissima piena di fili all’apparenza ingarbugliati, che in realtà delineano i contorni di una società in un tempo determinato, lo spaccato di un’epoca per vicende minori e sgangherate, buffe o paradossali. Del resto è lui stesso a teorizzarlo:
“Nella storia sincronica, nella ricostruzione interattiva, in queste strategie di conversazione che sono le nostre serate, i disastri sono in genere molto più apprezzati dei successi. È naturale. La demenza è infinitamente più attraente della saggezza. […] Di un’opera perfettamente allestita rimarrà soltanto il latrato di Pavarotti, e di un’ora abbondante di ottimo catenaccio non resterà altro che il madornale autogol all’ottantanovesimo di Niccolai” (Comunardo Niccolai, ndr, calciatore del Cagliari dell’epoca, maestro dell’autogol al punto che una volta che la sua squadra stava vincendo contro il Bologna uno a zero, dai tifosi emiliani si levò il grido “Nic-co-lai, Nic-co-lai”, e lui non tradì le aspettative infilando grottescamente la propria rete).
Queste le linee di campo – una di contenuto, l’altra di metodo – entro le quali si muove Berselli, entro cui indisturbato può “menare il can per l’area”. Anche se in realtà, col tono leggero di chi confessa peccati veniali, distribuisce idee ed asserzioni precise. Alcune: ironica presa d’atto che tutti i libri devono avere una tesi e che il suo non è detto che ce l’abbia, e che dunque forse farebbe bene ad atteggiarsi ad intellettuale consumato e comportarsi come se la tesi fosse lì, dietro il frontespizio, appena girata la pagina: “Ammettiamo che voi stiate scrivendo un poderoso e minutamente annotato saggio su Mario Corso. Nessuna persona normale potrebbe mai pensare che dietro la figura di un ‘trequartista‘, di un ‘attaccante atipico’, si possa celare qualche mistero gaudioso o doloroso di tipo politico o sociale. Tuttavia il segreto del vero intellettuale si può riassumere così: non bisogna scoraggiarsi alle prime banali difficoltà”. Altrettanto ironica invettiva nei confronti di alcune “figure tipiche” che bazzicano la nostra società: lo specialista (“lo specialista medio, poveretto, ha un animo privo di slanci: se un accademico rivale fa tanto di avanzare un’interpretazione robusta, addosso a criticare e a dire che quel grossolano lavora a colpi d’accetta, col trombone, con pennellate da imbianchino. Il pennino, ci vuole, e si racchiude così nella calligrafia della propria specializzazione e coltiva una sorda antipatia per i non specialisti, i versatili, i trespassers di confini disciplinari. Come si permettono?”; il catalogatore e suddivisore di libri, artefice di ingegnose e rigorose gerarchie per riordinare la libreria; persino lo studioso, inteso come generatore di speculazioni intellettuali troppo intricate (e a tal proposito si cita l’aneddoto di Gadda il quale, ricevuto un invito a partecipare ad un convegno dalla casa editrice Einaudi, dopo aver passato una settimana a rodersi su quale fosse la risposta migliore da dare – se vado posso incontrare Tizio che detesto, se mi do malato possono scoprire la frottola – scrisse il biglietto definitivo: “Non rompetemi i coglioni”).
E poi, la tesi definitiva. Riprendiamo in mano Corso, e l’Inter di Herrera. Mentre Mariolino sta per cominciare la sua azione, dalla panchina Helenio si sbraccia perché deve “passar la bala”. Ma il piede sinistro di Dio se ne fa beffe, come richiamato da un ordine superiore: “in mona anca ti”, pensa. “Fàsso quel càsso che me par”. Questo giocatore un po’ attempato e con la pancetta, uno cui oggi, guardandolo, non farebbero fare nemmeno il raccattapalle, si approssima all’area scartando due, tre, quattro avversari, spostandosi troppo sulla sinistra. Vicinissimo al portiere, il suo angolo di tiro è però drammaticamente stretto. Potrebbe ancora passar la palla all’indietro, farsi aiutare: ma decide di rischiare e di fare tutto da solo. Ecco qui il calcio come allegoria della vita – e della società. La regola più importante di ogni organizzazione è che nessuna organizzazione è correggibile. Una puntigliosa programmazione, dunque, serve solo a porre le fondamenta di un successivo, inevitabile, uso dell’improvvisazione per risolvere i problemi. Dopo settimane, mesi spesi a mettere a punto lo schema perfetto, insomma, “quando tutte le strategie saranno ingloriosamente cadute, nel chiuso dello spogliatoio alla fine del primo tempo l’allenatore urlerà: ‘Ragazzi, la ricreazione è finita. Ma che cos’è questa, una squadra di deficienti? Macché schema e schema! Date la palla a Sivori, e ci pensi lui’. Alla fine rimane sempre l’Uomo, non la Zona”.
E con questo termino, chissà mai che mi scappi di svelarvi come va a finire quell’azione.
Ginevra Ripa
Titolo: Il più mancino dei tiri
Autore: Edmondo Berselli
Editore: Mondadori
Collana: Piccola biblioteca Oscar
Anno: I edizione 2006
[…] modo di giocare. Lo racconta in maniera accattivante il giornalista Edmondo Berselli, nel suo libro Il più mancino dei tiri. Pare non esserci nulla tra queste pagine, eppure c’è praticamente tutto. Ci sono gli anni […]