Perché ci piacciono tanto gli anni ’80? (ovvero perché non riusciamo a...

Perché ci piacciono tanto gli anni ’80? (ovvero perché non riusciamo a parlare del nostro tempo)

ci avete giocato anche voi, merde

In questi ultimi anni si è assistito ad un florilegio di film e serie tv ambientate negli anni ’80. Si tratta di un fenomeno interessante, quanto importante per la diffusione e la portata. Fra le serie più viste di sempre, spicca ovviamente Stranger Things, ma si tratta solo della punta dell’iceberg. Fra i film più recenti ed acclamati nel mondo, per esempio, abbiamo Call Me By Your Name che è ambientato nei primi anni ottanta, ed il recentissimo Ready Player One è un inno alla nostalgia ed al vintage, ad un primo sguardo. Un revival di portata planetaria, che affonda le sue radici in molteplici sfaccettature della nostra cultura, e che spazia dal mero citazionismo che punta alla nostalgia, fino a qualcosa di più strutturato. Ciò, ad esempio, avviene nell’ultimo film di Spielberg, che torna a fare una delle cose che da sempre gli riesce meglio: il film per ragazzi con qualcosa in più. Non si tratta in Ready Player One di citazionismo spinto, ma di rielaborazione per creare qualcosa di nuovo e bellissimo, usando una versione futuribile di una tecnologia odierna. Eppure ancora manca qualcosa: perché sempre guardare indietro?

Innanzitutto, bisogna tener conto che una certa cultura nerd (vera o finta che sia) ha preso piede negli ultimi anni, diventando di massa. E la cultura nerd affonda le sue radici negli anni ’80, come insegna Ready Player One. Anche le ragazze che postano su Istagram frasi di Game of Thrones si sentono in dovere di compartecipare a questa cultura (lo ripeto, ancora e ancora, GoT NON è nerd e guardarlo NON vi rende nerd. È una telenovela in salsa medievale). Questo si mescola alla voglia di vintage di un periodo storico (il nostro) che fatica a riconoscersi in stili o correnti. Inoltre, parlare di anni ’80 permette di colpire una fascia di popolazione piuttosto ampia, da chi quegli anni li ha vissuti come bambino o adolescente (ed oggi è nella fascia 35-45) o chi, come me, ne ha vissuto gli strascichi culturali e  va ad affollare la fascia dei millennials sui trent’anni, che ancora cercano una direzione alla propria vita.

Ma questa voglia di vintage non basta. La verità è che da sempre siamo affascinati dal passato, che spesso idealizziamo come migliore rispetto al presente, soprattutto per quanto riguarda la cultura pop(olare). Quindi i cartoni animati di oggi sono spazzatura rispetto a quelli della mia età. Che ne sanno i giovani d’oggi dell’epica dei Cavalieri dello Zodiaco, del sacrificio dell’Uomo Tigre? Ma quei cartoni sono gli stessi che i nostri genitori ritenevano troppo violenti e non adatti a noi. Ogni generazioni fatica a capire quella successiva, e la cultura che essa si porta dietro. Siamo solo vecchi, insomma?

Non solo.

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L’affrontare una narrazione ambientata nel passato porta con sé delle conseguenze implicite in quello che i più colti chiamano storytelling. Banalmente, permette di eludere i vincoli della tecnologia moderna, rifacendosi ad una tecnologia vintage (quindi nostalgica) e di più facile gestione. Questo comporta una notevole semplificazione narrativa: col cellulare, Elio non avrebbe potuto struggersi altrettanto per le assenze prolungate di Oliver in CMBYN. Ugualmente, se al posto del walkie-talkie in Stranger Things avessero avuto gli smartphone, la storia si sarebbe svolta diversamente, pur mantenendo inalterati i fini, i contenuti ed i sentimenti. L’assenza di tecnologia semplifica la narrazione perché esclude un linguaggio che, evidentemente, ancora non siamo in grado di gestire e descrivere. Così, la narrazione sottrae la tecnologia: negli horror, quando si ferma la macchina in mezzo al bosco non c’è mai campo (Verizon, mi leggi? Metà degli USA sono senza campo e i serial killer lo sanno!), oppure il telefono è scarico o bloccato da qualche parte e dunque inservibile. Sono pochi i film che hanno provato a confrontarsi con i linguaggi della tecnologia in maniera seria. Capita di sentir parlare di tecnologia nei film, ma non di vederne il linguaggio né un utilizzo funzionale nella trama. Oppure di vedere affrontate le tecnologie del futuro, con le loro implicazioni, senza però confrontarsi con quelle odierne. Tralascio le commedie italiane (come Che vuoi che sia), che usano il pretesto della tecnologia, ma senza provare a capirla. Ed anche il buon Perfetti Sconosciuti, dove le conseguenze della tecnologie vengono poste al centro, non il suo linguaggio. Fra i pochi film che hanno fatto questo tentativo, Personal Shopper di Assayas è fra i più interessanti (passati in sordina). Dietro lo schermo, coi messaggi, altro non siamo che presenze, che fantasmi. Viviamo di inconsistenza e assenza. I nuovi linguaggi amplificano le distanze, incrementando le assenze, secondo Assayas. Oppure avvicinano, perché mettono in comunicazione tutto il mondo in un battito di ciglia?

Eppure il problema rimane. Non siamo in grado di rappresentare la tecnologia che ci contraddistingue in questo periodo storico. Non sono nel cinema, ma neppure nella letteratura (per questo ho chiesto l’aiuto del pubblico, che legge anche libri di autori viventi). Si tratta di un problema semantico e formale, oltre che di contenuto. Innanzitutto, ancora non sappiamo come rappresentare graficamente questa tecnologia. Sembra banale, ma se voglio descrivere uno scambio di messaggi via whatsapp o su Fb in un libro, come faccio? Descrivo tutto in terza persona (alert: wall of text), oppure uso un carattere diverso, come il courier?

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Lo stesso vale per il contenuto. I sentimenti sono identici a quelli esperiti in un’epoca senza tecnologia? Forse sì. Eppure ancora fatico a trovare una descrizione cinematografica o letteraria della distanza, vissuta coi messaggi di whatsapp o on le video-chiamate. Perché è difficile descrivere la grammatica psicotica che sta dietro ai brevi messaggi. Una virgola, una parola, possono voler dire tutto. O niente. Io che leggo posso dare un’interpretazione totalmente diversa, rispetto a chi ha scritto. Coi messaggi le sfumature sono personali e soggettive, del tutto soggette ad interpretazione. E come descrivere, ancora, l’orrore delle spunte blu? O del fatto che la persona si sia collegata ma non abbia aperto i nostri messaggi? E l’attesa spasmodica per un messaggio, il sobbalzo quando il cellulare vibra in tasca, la speranza che sia lei, mentre invece è il solito gruppo tossico “Regalo Compleanno di Andrea”, in cui qualcuno ha scritto “OK.”

Noi viviamo quotidianamente questo mondo. Eppure non riusciamo a parlarne, neppure con l’arte. Immaginiamo i linguaggi tecnologici futuri (Black Mirror, Don De Lillo), ma non riusciamo a codificare il nostro linguaggio attuale. Oggi più che mai abbiamo bisogno di chi descriva quello che siamo. E se l’arte deve avere una sua utilità, è quella di aiutarci a conoscere, di guidarci o almeno dare un senso alle nostre piccole cose, in un mondo dove tutto fatica ad averne.

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