Conversare al Massimo Volume con Emidio Clementi
Emidio Clementi, scrittore e musicista, leader dei Massimo Volume; una di quelle figure cui chiederesti di tutto. Noi di SALT ci abbiamo provato, parlando dei suoi testi, dei suoi modelli, di Carnevali e Steibeck, ma anche di alienazione, controcultura e della seduzione dell'ambiente alternativo.
Per i fortunati possessori di una cultura musicale che sconfini il festival di Sanremo, Emidio Clementi è probabilmente un nome noto: frontman dei Massimo Volume, gruppo centrale nella scena musicale alternativa anni ’90, inconfondibile per gli ambienti sonori cupi, dove il testo si anima tra il recitativo e la “spoken word”.
Alla carriera musicale si affianca a quella letteraria, che spazia dai racconti ai romanzi. Dell’ultimo, “L’Amante Imperfetto”, si è discusso nella rassegna “Libri Selvaggi – il confine tra identità e finzione narrativa”, curata da Mostri Selvaggi e moderata dalla scrittrice Valentina Olivato, nella cornice della Confraternita dell’Uva, vivacissimo caffè letterario bolognese.
Una ghiotta occasione per il sottoscritto di regalarsi un sabato sera da campioni: una rassegna brillante, un rosso strutturato e una lunga chiacchierata con Emidio Clementi!
Ben presto la classica scaletta si rivela orrendamente limitante; decisamente meglio affidarsi al flusso della conversazione, a partire da Emanuel Carnevali, poeta e scrittore italiano “morto di fame nelle cucine d’America” la cui eco più volte si avverte nella produzione artistica di Clementi.
Emidio Clementi (EC): Non ho mai sognato di essere Carnevali; ho sognato di essere Sam Shepard, qualche cantante, ma non Carnevali. Lui mi ha insegnato “il valore dello sguardo” e l’ho accolto perché descriveva un ambiente che era il mio (quello del lavoro nelle cucine, ndr), che a me sembrava molto asfittico ma che lui riusciva a rendere magico.
Ho parlato di lui nei testi dei Massimo Volume, ci ho scritto sopra un romanzo, “L’Ultimo Dio”, ed altro ancora, ma sbaglia chi mi vede come il più grande esperto di Carnevali in Italia. È un autore che mia ha segnato, che ho scoperto per caso come molte cose belle della vita, ma la vita me l’ha segnata.
Pietro Romozzi (PR): Carnevali lo hai anche portato a teatro in “Notturno Americano”…
EC: Si, ed era la prima volta che mi cimentavo con la parola di un altro; con Carnevali però mi sono detto che era talmente vicino a me che potevo farcela.
PR: Resta comunque complesso confrontarsi con l’opera di altri. Rischi che la tua percezione possa essere anche molto distante dall’oggetto con cui ti relazioni.
EC: Ma non puoi fare altro che interpretare. Mi è capitato facendo un disco sui “Four Quartets” di T. S. Eliot. Ascoltando la voce di Eliot, il tono è leggero, ironico, mentre la mia interpretazione è più drammatica. Ad Eliot verrebbe la pelle d’oca!
PR: La chiave drammatica sicuramente ti caratterizza, proponi spesso immagini grottesche, crude. Da dove arriva questa visione?
EC: Ne “La notte del Pratello”, ad esempio avevo ben presente “Vicolo Cannery” di Steinbeck. Entrambi descrivono dei falliti, losers che tuttavia scelgono quella strada considerandola privilegiata: un’aristocrazia della miseria. Nel Pratello i personaggi sono paradossalmente snob, defilati in modo da poter vedere scorrere la vita, e commentarla. E come in Steinbeck, nessuno nel Pratello vuole cambiare la sua condizione; sanno cosa c’è nel mondo borghese ma non gli interessa.
PR – giocandosi il bonus “domanda ovvia”: Hai appena citato Steinbeck. Da quali altre letture “attingi”?
EC: Letture fondanti, “I quarantanove racconti” di Hemingway. Lo copiavo! Avrei voluto scrivere un racconto che fosse contenuto li.
Sam Shepard lo stesso.
Ma non sei un calligrafo, ed è in quello scarto che forse ti crei uno stile. Avrei voluto copiarli totalmente ma non ci riuscivo e lì è venuta fuori la mia cifra.
In campo musicale penso a Jim Carrol: testi così espliciti, ricchi di riferimenti, mi avevano colpito tantissimo; così tanto perché probabilmente qualcosa di simile era dentro di me.
Leggendo “Vicolo Cannery” ho pensato “quanto vorrei scrivere un libro del genere”, poi passando dall’esperienza del Pratello (il periodo di occupazione dell’omonimo quartiere di Bologna, ndr), ho capito che era quello il mio Vicolo Cannery. Un altro Vicolo Cannery è via Vasco da Gama, una strada del porto di San Benedetto del Tronto; passandoci ci vedo gli stessi personaggi di Steinbeck.
Poi sono stato a Monterey e Vicolo Cannery mi ha deluso; era molto più forte nella mia immaginazione. Va spesso così, vuoi che se incontri Dylan non scopri che è un rompicoglioni?
(Non te la prendere quando leggerai, Bob; era una battuta!)
Ambienti asfittici, losers, e con un paio di svolazzi pindarici ti ritrovi a parlare di alienazione, soprattutto linguistica (vissuta da Clementi con lo svedese vivendo, appunto, in Svezia).
Cos’è l’alienazione oggi? Come è cambiata rispetto a come Clementi la descriveva 20 anni fa nei testi dei Massimo Volume?
EC: Piuttosto che di alienazione, oggi parlerei di un senso di disagio. Ti ci puoi crogiolare, ma può essere pericoloso; ti può uccidere. Ma un momento di disagio ti serve; il mondo è fatto di chiaroscuri, di contraddizioni di cui in un certo senso abbiamo bisogno. Si tratta di dominare il disagio, di incanalarlo in una forma artistica – ammesso che si possa effettivamente dominare. Chi non è mai stato a disagio di tutti i mostri sacri dell’arte?
Nei paesi dove non c’è disagio, nella classifica dei 10 posti migliori per vivere, si rischia di trovare gente un po’ più “sciapa”. (Scherzando) Ma infatti, culturalmente che viene fuori dalla Danimarca?
PR – forte dei mesi vissuti a Copenaghen, non dissente.
Torniamo dalla Scandinavia alla Bologna di un paio di decenni fa… Il sottoscritto cede a questo punto al mood confronto generazionale.
PR: Ho l’impressione che 20 – 30 anni fa la vita culturale fosse più attiva, affiancandosi anche ad esperienze “fisiche”, anarcoidi. In un certo senso la crescita intellettuale era finalizzata a scopi (anti)sociali tangibili, mentre oggi la vita culturale è più sterile, fine a se stessa.
Oggi, ad esempio, sganciarsi dal filone culturale dominante, può evolversi nell’alternativo, nell’indie, ma non più in controcultura nel senso oppositivo del termine.
EC: Ricordo il centro sociale Isola Del Cantiere. Ci andavi per sentire certi gruppi inglesi, americani, anche italiani; i loro dischi potevi trovarli solo lì sui banchetti. Erano fuori dai circuiti, qualcosa che stava accadendo lì ed in quel momento. Mi è sembrato che questo mondo fosse finito quando nei centri sociali iniziavi a trovare i libri sull’uso della canapa, le marmellate, i vini. Era un rimanere attaccati a qualcosa, ma culturalmente non produci più.
Soprattutto la cultura alternativa era “sexy”. Anche se non partecipavi attivamente la trovavi seducente, oggi questa seduzione si è un po’ persa. Dovrebbe essere rinnovata per tornare a quella seduzione, andare oltre l’impegno politico. La politica è noiosa, una “pizza micidiale” – quando arrivai a Bologna nell’’84, degli anni ’70 politici non fregava più un niente a nessuno!
Però negli anni ’70 la politica era certamente sexy. Pensa alla beat generation, ha prodotto anche tanti libri mediocri, ma chi non avrebbe voluto essere lì con Jack Kerouac o Dean Moriarty (Dean Cassady, ndr)?! Era la cosa “più figa” che ci fosse in quel momento. Oggi dov’è quella roba che ti fa dire “vorrei essere li”?
Sulla base della mia esperienza, la cultura alternativa si affiancava all’ idea di giovinezza, era qualcosa di erotico più che di politico.
PR: Sottolinei l’erotismo, la seduzione dell’oggetto culturale e artistico. È interessante, tornando alla tua produzione, che ricerchi questa fascinazione a partire dal brutale, dal crudo. La tua produzione si anima di un’attrazione-repulsione che ha valore in un certo senso catartico, permettendoci, attraverso l’oggetto artistico, di immergerci in un’oscurità dalla quale altrimenti rifuggiremmo, ed uscirne con una nuova consapevolezza.
EC: Capiterà anche a te che una musica più triste ti tocchi maggiormente. A me la musica allegra urta, mentre mio suocero ascolta salsa tutti i giorni. Questa è l’operazione catartica di cui parli: non voglio quella tristezza, ma ad una certa distanza diventa piacevole.
Ma è possibile ascoltare salsa tutti i giorni?
Questo però, ad Emidio Clementi, non lo chiedo.