Il Kumano Kodo giapponese – 3 | Discesa al villaggio di Chikatsuyu e percorso a Tsugizakura Oji: il Mezzo, il Vuoto, la Rinascita
…Lasciandosi alle spalle il passo di Hashitori-Toge si scende lungo un dolce selciato sino in fondo alla vallata.
Lì Chikatsuyu, che si stende benevola su di un largo bacino tra due monti a circa 300 metri d’altezza, non è nulla di più che una metafora. A metà del cammino, scissa diametralmente in due dal gorgogliante fiume Hikigawa, raccontava ai pellegrini che l’unione del perfetto non è di questo luogo e che lunga era ancora la ricerca di sé percorrendo la Via: la meta, ancora, lontana. Il villaggio offriva luoghi d’adorazione e riposo presso uno dei più antichi Oji di Kumano: il contatto con l’assenza era infatti componente fondamentale della catarsi del viaggio.
Oltre novecento anni fa, quando la fama dei pellegrinaggi raggiungeva la massima floridità, in quest’area erano allestiti alloggi per oltre trecento persone. Oggi di tutta quella vivacità di strade e foresterie di templi non rimane nulla se non qualche minuto capitello votivo: l’ultima pagoda fu demolita nel 1906 per ordine imperiale.
Mi incammino furtivo, attraverso questo villaggio che pare abitato solo da forte vento e piano riprendo a salire. Tutto è deserto, silenzioso, memoria ed immaginazione possono dar vita a mondi scomparsi: imperatrici intriganti avanzano in corteo, seguite da funzionari di corte e da monaci intenti a sorvegliarsi l’un l’altro per accaparrarsi la benevolenza della sovrana. Nel clamore della corte, nessuno nota una minuta dama che porge un fiore ad un paggio dell’ultimo rango. È tutto qui il mistero del Giappone: cercare, nel clamore, una celata meraviglia.
Poco fuori dal villaggio, un cartello ci racconta la storia delle montagne circostanti. Il monte Kobiro, originariamente Kobirou, significa “ululato dei lupi”. Ci fu un tempo in cui, durante la notte, era possibile udire branchi di lupi ululanti che scendevano al villaggio cercando di che sfamarsi. Chiamarono il monte adiacente al primo Sembiki Okami, che significa “un centinaio di lupi”. Gli abitanti del luogo li temevano e veneravano: erano considerati alla stregua di divinità della montagna che attraversavano queste foreste per recarsi al monte Sanjojatake presso Yoshino (celebre per le sue vallate di ciliegi in fiore), dove i branchi avevano il loro consiglio. Parrebbe quasi che Kipling avesse rubato da questi luoghi il suo celebre Consiglio della Rupe.
Il Kumano Kodo, in realtà, non fu un unico percorso, bensì un insieme di strade parallele per il santuario di Hongu, utilizzate da pellegrini e viandanti. La strada che calpestiamo oggi è detta, in questo tratto, Mikkamoryama. Questa parola è composta da: mikka che significa “tre giorni”, mori “foresta” e yam “montagna”, il cui nome è legato alla leggenda di Ogurihangan e della principessa Terute. La storia racconta che alla principessa servirono tre giorni per compiere il giro dell’intera montagna spingendo Ogurihangan seduto su un carro. Ho lungamente cercato chi fosse, questo Ogurihangan, ma nulla ho trovato a riguardo nelle fonti a me accessibili. Mi piace pensarlo come un vivace e dispettoso spiritello, dall’istrionico aspetto: d’altronde gran valore doveva essergli attribuito per ricevere così tanta zelante attenzione da parte di una così illustre dama.
Il percorso prosegue in quota, quasi rettilineo, sino ad imbattersi in un folto gruppo di alberi di pino giapponese. Oggi non paiono tanto diversi da altri che li circondano ma, ai loro piedi, poche righe ce ne raccontano la storia. Una volta, qui, c’era un tempio e, in particolare, un cortile che accoglieva il sacro albero di pino “temakura – no – matsu”, piantato nell’ottobre 1201 dall’imperatore dimesso Gotoba, fermatosi in questi luoghi in preghiera. I miei occhi si sono spinti nei dintorni di questi alberi alla ricerca di un muretto a secco, qualche cosa che lasciasse ad intendere che qui qualcosa fu. Non ho trovato nulla. Rimane solo quel vuoto, tanto caro alla filosofia giapponese che, “nell’esenzione di ogni senso, scrive i giardini, i gesti, le case, i mazzi di fiori, i volti, la violenza” * (Roland Barthes, l’impero dei Segni).
Il sole iniziava a poggiarsi sul dorso della collina e la mia meta dopo il giorno di cammino era oramai a pochi passi: il tempio di Tsugizakura-oji e la sorgente Nonaka-no-Shimizu. Questo tempio è celebre, oltre che per i suoi cedri millenari, per la fonte situata ai suoi piedi, considerata una delle cento acque più pure del Giappone. L’odierno silenzio del luogo, rotto solo dal costante zampillio, cela il vociare dei pellegrini che qui sostavano per rifocillarsi prima di riprendere la via. È forse proprio grazie a queste acque che ancor oggi sopravvive rigoglioso il ciliegio di Hidehira Zakura. Si racconta che Hidehira Fujiwara, membro del potente clan Fujiwara di Oshu, in cammino con la moglie, abbandonò il figlio appena nato presso la grotta di Takijiri affidandolo agli spiriti della foresta, per poter proseguire in modo più spedito il cammino verso il santuario di Hongu. Giunti al tempio di Tsugizakura la coppia di genitori decise di piantare il ramo di ciliegio che aveva utilizzato come bastone da cammino per propiziare una buona sorte al piccolo neonato.
Come già avevo avuto modo di capire, lungo la strada nulla è lasciato al caso. Il ciliegio ha in questi luoghi un significato ben più profondo di quello meramente estetico che gli attribuiamo in Occidente. Non si contempla la fioritura d’un albero per la sua bellezza: c’è, in questo luogo, l’ossimorico scontro tra la vita e la morte. Si celebra una nascita che, come un leggero sakura trasportato dalla brezza primaverile dopo la fioritura, è destinata a cadere. È nella fragilità, vana e fugace, di una vita che è celata l’essenza di tutte le cose.
Discende già la notte;
Albergo m’è l’ombra di un ciliegio,
ed oste un fiore.
Haiku inciso ai piedi del ciliegio di Hideira
…continua…