“Pura vida!” | Vivere nella foresta in Costa Rica
«Allora stai andando dove hanno ucciso quel tizio?»
«Come scusi?»
«Ma si dai, l’anno scorso mi pare. Non stava pure lui da quelle parti?»
«Davvero non so di che stia parlando, mi spiace.»
Il vecchio alzò le spalle e riprese a tagliare il suo pancake sommerso di sciroppo e pezzettoni d’ananas. Non capivo né la sua domanda né la sua presenza in un ostello nella periferia di San Jose, capitale della Costa Rica.
«Non sei pure tu uno di quei abbraccia-alberi che va nella foresta? Perché pure lui lavorava là però poi l’hanno ucciso. Siete un po’ svitati secondo me» ridacchiò facendo tremolare la pappagorgia.
«Mi scusi, ma lei chi è? Che ci fa qui?» chiesi esasperato e intendendo con “qui” un qualsiasi luogo che non fosse su una sedia a dondolo in una veranda di una villetta alla periferia di Tampa.
«Ma come che ci faccio, ci vivo no?» E mi guardò con aria sorpresa e quasi offesa. «10 $ a notte, colazione inclusa. Gli affitti sono più cari in America.»
Era surreale. Così assurdo eppure candidamente logico. Poi lo sguardo del vecchio divenne affettuoso «Pura vida!» esclamò ammiccando.
Questo il primo ricordo che ho di quel meraviglioso paese che mi ha dato una casa, un lavoro e più di una storia da raccontare.
Arrivai la prima volta in Costa Rica nel Gennaio 2014, con la soddisfazione di una laurea presa da poco e la rassicurante certezza di iniziarne un’altra in autunno; 8 mesi di tempo per rilassarmi, viaggiare e mettermi alla prova. Destinazione: Parco Nazionale di Tortuguero. Adagiato lungo la costa caraibica del paese, 30 km di spiaggia nera separano il mare dalla foresta, due luoghi maestosi, fragorosi e rigurgitanti di vita.
A Gennaio sono da poco finite le piogge autunnali e mancano ancora alcuni mesi prima che quelle estive – più frequenti e intense – colpiscano la zona. Sebbene piovesse comunque con una frequenza disarmante, era sempre più facile avere giornate serene in cui i raggi di sole si affacciavano a fatica tra le chiome degli alberi, e la foresta si mostrava in tutta la sua timida e dirompente bellezza. Persino le zanzare, onnipresenti in ogni caso, erano leggermente meno fameliche e attive che non durante le piogge.
Per arrivare a Tortuguero poche scelte: o un trabiccolino volante che vi scaricherà su una pista di terra battuta, oppure via fiume. Inutile dire che la gente normale sceglie la seconda opzione.
Un intricato sistema di canali costituisce un’autostrada d’acqua che da lì corre fino a Limón, in una regione che quasi non conosce l’asfalto. Centinaia d’aironi bianchi s’involano al vostro passaggio e, scostandosi come una tenda, vi mostrano la prossima ansa del fiume mentre sui banchi di sabbia enormi coccodrilli possono passare l’intera giornata mollemente spiaggiati con un ghigno che non lascia spazio all’immaginazione – si stanno chiaramente godendo la vita – per poi sparire in un istante nel loro regno acqueo. Sono gli spiriti del fiume.
E intanto su tutti i lati, siete circondati dal Grande Muro Verde. La foresta.
Provare a descrivere la foresta è, parafrasando Frank Zappa, come ballare di architettura. Le parole non possono dare un’idea della cacofonia di suoni, odori e colori e allo stesso tempo della calma che vi regna.
Circondati da alberi su tutti i lati pare quasi di entrare in una bolla, un luogo immobile seppur in costante mutamento. Un odore dolciastro di cantina, di umido, di salnitro, ovatta tutto e solo le zaffate di salsedine che arrivano dal mare vi ricordano che da lì a pochi metri si apre l’oceano, che c’è ancora qualcosa rimasto oltre gli alberi.
I suoni – il gloglottio dell’oropendola e il muggito della scimmia urlatrice, il ronzio del colibrì e lo schiocco secco del manachino, l’incessante gracidare notturno delle rane e il frinire diurno delle cicale – presto si fondono e non li udirete più, faranno parte dell’ambiente e, se vi concentrate, vi sembrerà persino di sentire lo stesso sottobosco fremere, crescere e combattere anelando la poca luce che filtra tra i rami.
Si sente tutto, ma difficilmente si vede. In un ambiente in cui il raggio visivo – soffocato da liane, felci e fronde – difficilmente supera i 10 metri, vedere qualcosa è il più grande regalo che la foresta possa farvi. Ai turisti non piace la foresta. Loro vogliono i safari africani, dove dalla comodità di una jeep vedono l’elefante, il leone, la giraffa. Natura tascabile.
E anche qui a Tortuguero preferiscono stiparsi in massa sulle barchette – per avere un’idea veloce e incompleta della foresta e poter depennare scimmie, iguane e bradipi dalla lista della spesa – oppure si recano sulle spiagge durante la stagione delle tartarughe per assistere a quel meraviglioso e assurdo processo che porta le neo-madri ad uscire dal mare, scavare un buco, deporci il prezioso carico per poi lasciarlo in balia del caso per i successivi due mesi. Tutto qui a Tortuguero, a partire dal nome stesso, ruota intorno alle tartarughe: da Aprile a Settembre mansuete tartarughe verdi, rare embricate, pachidermiche dermochelidi fuoriescono dal mare a decine di migliaia. Il ricavo del bracconaggio viene sempre più sostituito da quello del turismo e le tartarughe, nonostante il disturbo dei flash e degli smartphone, ringraziano.
Ma la vera anima resterà sempre e solo la foresta. Di cui tutti, turisti e bracconieri, avranno sempre solo un’idea parziale.
È un luogo contraddittorio, pieno di meraviglie eppure terrificante, attraente e repulsivo, impenetrabile e accogliente; un luogo in cui l’idilliaco e l’atroce, il benevolo e l’ostile, la vita e la morte fanno costantemente l’amore. È la jungla, baby.
Pura vida!
[NDR: la storia del “tizio ucciso” di cui parlava il vecchio purtroppo è vera: si chiamava Jairo Mora Sandoval, qui quello che è successo]