La distopia dell’efficienza: il Mondo Nuovo di Huxley
La fantascienza: genere troppe volte snobbato, a dispetto dello straordinario merito di imprimere su pellicola, o su carta, il futuro. L’essenza del suo fascino sta tutta nella domanda “come sarà il domani?”. Ed è allora che l’invenzione, la costruzione del personaggio, la tessitura della trama, si animano del peculiare sforzo di anticipare la società che verrà.
Non è escluso poi, che la fiction diventi profezia: l’IA, stravaganza letteraria di ieri, sconfigge oggi i campioni di scacchi; i robot lasciano le pagine dei romanzi per rimpiazzarci sul posto di lavoro. E chissà che magari Liu Cixin non sta scrivendo proprio oggi ciò che l’uomo del 2068 chiamerà presente?
In mezzo alla paccottiglia da nerd, è pieno di idee visionarie capaci di spingere il nostro immaginario oltre il prossimo fine settimana, sollevando interrogativi concreti su dove siamo oggi, ma soprattutto su dove vogliamo andare.
Dribbliamo allora la robettina alla Hunger Games e occupiamoci di opere per palati un po’ fini proponendo un gustosissimo futuro concepito nei remoti anni ’30: Il Mondo Nuovo, di Aldous Huxley.
Se Orwell preconizzava la distopia del controllo – se non avete letto 1984 ve l’ho appena assegnato come compito a casa! -, quella di Huxley è la distopia dell’efficienza.
Bastano poche battute per scivolare su quel beffardo “anno di Ford” che subentra ad “Anno Domini” o sul disturbante “oh Ford!” che, in un impeto di cristianità, ci fa rimpiangere “oh Dio!”.
Ebbene si, siamo in un mondo dove Ford è venerato come un dio, un mondo pervaso da una gelida razionalità pianificatrice, votata a definire ogni aspetto della vita dell’individuo.
“Comunità, Identità, Stabilità” è il motto dello Stato Mondiale.
Già questo sarebbe sufficiente, ad una prima lettura, per affibbiare ai fordiani “poteri forti” l’etichetta di cattivi, ma se proviamo ad astrarci dalle nostre categorie abituali e dal fluire della trama, noteremo che le loro finalità non sono poi così diaboliche. Nessuna élite che ambisca a denaro o potere, bensì un governo votato ad efficienza e stabilità: si opera per un bene comune disumanizzante, ma pur sempre bene comune.
Paradosso interessante…
Gira che ti rigira, siamo sempre all’annosa questione del fine e dei mezzi. Nel Mondo Nuovo il fine è raggiunto, il bene comune è realtà, ma ciò che interessa veramente Huxley sono i mezzi per raggiungerlo… Eugenetica, conformismo, droga, consumo, tanto per dirne alcuni.
La società-fabbrica produce in serie esseri umani stessi, elaborati in provetta e condizionati per essere perfettamente adeguati al ruolo sociale loro assegnato. Perfettamente è da intendersi alla lettera: se sei destinato alla bassa manovalanza, sarai “fabbricato” deforme e stupido, totalmente privo di pensiero critico o addirittura di un’individualità in quanto clone.
“Soltanto da un Epsilon (la classe sociale più bassa, nda) ci si può attendere che faccia dei sacrifici da Epsilon, per la buona ragione che per lui non ci sono sacrifici: sono la linea di minor resistenza. Il suo condizionamento ha posato dei binari lungo i quali deve marciare. Non può impedirselo; vi è fatalmente predestinato”.
Del resto che se ne farebbe un Epsilon di particolare fascino o intelligenza? Potrebbe realizzare quanto il suo ruolo sia infimo, alienante; potrebbe detestarlo, o peggio, ambire a qualcosa di meglio, generando la demonizzata instabilità sociale.
In questo contesto di classi sociali stagne, il popolo non se la passa poi male, chiuso in una gabbia di abbacinante doratura tale da riflettere una libertà illusoria. L’individuo è al riparo da ogni forma di stress, inondato di beni da consumare e stravaganti forme di intrattenimento da fruire – sto ancora cercando di concepire il “cinema odoroso”, ma questa è un’altra storia – e se qualcosa in questo ovattatissimo mondo dovesse andare storto, basta una pilloletta e passa la paura. La droga infatti è istituzionalizzata, in virtù dell’elezione della felicità a obiettivo primario dell’individuo; che sia reale o chimicamente indotta è una questione secondaria.
Come reagiremmo ad un mondo così? Probabilmente come il Selvaggio, un curioso simil-Tarzan imbevuto di Shakespeare che si ritrova dantescamente nella selva oscura del Mondo Nuovo: è lui l’espediente usato da Huxley per mostrare come l’efficienza esasperata sopprima la nostra umanità riducendoci a sorridenti consumatori inebetiti.
Ma il Selvaggio non è solo motore della trama; è la voce a cui Huxley affida gli interrogativi che ogni lettore equipaggiato di senso critico vorrebbe porre, permettendo all’autore digressioni saggistiche che, a mio avviso, rappresentano il tratto saliente del romanzo. Dialoghi sulla libertà, sull’effettiva consistenza della felicità come fine, sulla soppressione della grande arte attraverso la rimozione delle pulsioni umane; solo alcune delle tematiche che spuntano qua e là nel Mondo Nuovo e “accendono qualche lampadina” senza però appesantire la fluida struttura romanzesca.
Ed ora, chiusa la quarta di copertina, domandiamoci quanto probabile sia il lucidissimo incubo huxleyiano.
Dite che una pianificazione così capillare sia irrealizzabile? Provate a googlare “big data”.
“Sostanze pro-felicità dispensate come caramelle, ma figuriamoci!”, esclamò mentre riponeva il barattolo di proteine isolate nella dispensa di fianco agli energy drink.
Nessun futuro potrà mai sopprimere la grande arte! Eppure vedendo il Festival di Sanremo affermerei che il decesso è bello che avvenuto.
Se Huxley ci ha visto lungo – e Dio/Ford non voglia che sia cosi! – ce lo dirà il tempo. Nell’attesa, il suo Mondo Nuovo resta uno scenario provocatorio, temibile, ironico (spesso nell’accezione british del termine) con il quale è stimolante confrontarsi anche a distanza di 80 anni dalla sua stesura. Un classico di fantascienza distopica che non può mancare nella propria biblioteca personale, magari di fianco al cofanetto di Black Mirror.
Titolo: Il mondo nuovo
Autore: Aldos Huxley
Anno: 1946
Editore: Mondadori
Pagine: 359