Our Favourite Shop | The Style Council

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“Non era il momento di essere imparziali. Era un momento troppo serio, troppo estremo. […] Quando ero nei Jam non volevo prendere parte ad alcun movimento. Ma qui era diverso. La Thatcher era salita al governo nel 1979 e dalla guerra delle Falklands in poi non c’è stata che lei lì ad esercitare il suo potere, i sindacati erano logorati, c’era lo sciopero dei minatori, la disoccupazione di massa, c’erano tutti questi problemi; doveva fregartene qualcosa, e se non era così era perché avevi la testa sotto la sabbia o non ti fregava un cazzo di nessuno a parte te stesso. Non potevi restare neutrale. Era tutto molto in bianco e nero, all’epoca.”[1]

Così Paul Weller descrive la prima metà degli anni Ottanta, periodo cruciale per lui – e per tutto il Regno Unito. Dopo un prolifico decennio con i Jam, gruppo emblema del mod revival con cui aveva raggiunto la fama, è proprio lo stesso frontman ad annunciarne lo scioglimento nel 1982. Pur avendo rappresentato un primo importante canale espressivo attraverso cui sfogare la propria irrequietezza giovanile e al contempo un fondamentale momento di ricerca ed affermazione d’identità personale, il gruppo originario di Woking sembra non lasciare più a Weller gli spazi necessari per la desiderata sperimentazione, tanto musicale quanto tematica.

È allora che i tempi sono maturi per gli Style Council, un nuovo ed eccentrico progetto musicale nato dalla collaborazione con il tastierista Mick Talbot. Dopo il successo d’esordio con un mini LP nel 1983 (Introducing the Style Council), è l’anno successivo che con Café Bleu la rottura rispetto al periodo precedente si compie definitivamente: ben sei brani strumentali, un’orchestra decisamente più ampia e variegata la cui presenza (specie del piano) si fa sempre più cospicua, proprio a permettere quelle incursioni in territorio jazz tanto desiderate da Paul e addirittura un (discutibile) esperimento in chiave rap. Il nuovo gruppo è subito un successo, ma il vero apice viene raggiunto con il secondo albumdi cui lo stesso autore dice: “Avevo una fiducia totale negli Style Council. Ne ero ossessionato i primi anni. Li ho vissuti e respirati fino in fondo. Ho inteso ogni parola, e sentito ogni azione. Our Favourite Shop è stato il culmine di tutto ciò.”[2]

Al momento dell’uscita, nel 1985, il disco entra immediatamente al numero uno delle classifiche britanniche – ed è l’unico del gruppo a riuscirci. Perché? Spiegare il successo o la natura di un’opera del genere è molto difficile; tutto ciò che poteva essere detto sembra ritrovarsi nelle note e parole che lo compongono, mentre qualsiasi commento rischia di risultare banale o ripetitivo rispetto all’incisività con cui la musica riesce a catturare emozioni ed immagini (la cosa migliore che possiate fare è semplicemente ascoltare i testi).

È un album con diverse imperfezioni, dalla produzione e qualità del suono non sempre eccelse alla mancanza di elaborazione di alcuni tentativi che sono rimasti forse allo stato grezzo – il sound ridondante e un po’ urlato di Internationalists rappresenta forse una piccola regressione, che non avrebbe stonato in un album dei primi Jam. Si tratta però di un prodotto che non manca di una qualità spesso sottovalutata: il tempismo. Our Favourite Shop è arrivato al momento giusto nel posto giusto. Paul Weller, da vero regista più che semplice cantautore, ha saputo mescolare le proprie esperienze e qualità con quelle dei colleghi per incapsulare con poesia, intelligenza ma soprattutto irriverenza un momento di profondo disagio sociale e politico. Ed è questa la differenza fondamentale, credo, rispetto allo stridio incazzato del punk di poco meno dieci anni prima. Lo stereotipo dei cattivi ragazzi volgari, emarginati, ignoranti (nel senso di inconsapevoli, e forse proprio disinteressati alle complessità della realtà circostante) che si limitavano ad esprimere il proprio rumoroso dissenso in maniera distruttiva, cede il passo a una categoria assolutamente nuova di portavoce. “Erano socialisti, vegetariani, non bevevano, indossavano impermeabili alla moda, maglioncini colorati, scarpe costose e hanno dato vita alla miglior musica modernista di sempre. Denunciavano le più corrosive questioni sociali del loro tempo, anche se ciò comportava la minaccia del suicidio commerciale.”[3] Questa volta la contestazione veniva dall’interno, non dai margini; da giovani uomini ben vestiti e ancor meglio informati, attenti osservatori dell’attualità e pronti a dire che no, le cose non andavano, e sì, potevano essere cambiate.

Ma non sono solo le vesti a mutare: ciò che è ancora più sorprendente è che le parole, pur così taglienti, non sono immerse né nel caotico chiasso del punk né nel folk melodico del cantautorato impegnato. Il gruppo si è ormai assestato e ricomprende, oltre ai fondatori Weller (voce, chitarra, basso, sintetizzatore, ma soprattutto autore e produttore) e Talbot (piano, tastiere, organo e qua e là autore e voce), Steve White alle percussioni e la splendida D.C. Lee ai cori – anche se i credits richiamano una lista di musicisti ben più lunga che spazia dal contrabbasso al trombone. Ed è proprio grazie a questa variegata compagine che Weller riesce finalmente a dare libero sfogo al proprio estro creativo, immergendo i versi in atmosfere che attingono ancora al jazz ma anche e soprattutto al soul, all’R&B e al funky e impacchettando un potente messaggio politico in un contenitore singolare e innovativo – all’apparenza addirittura fuorviante per il gioco di contrasti tra la freschezza delle melodie e la gravità dei contenuti.

Il perno tematico intorno a cui tutto ruota è il lavoro (o meglio, la sua mancanza), causa e conseguenza di quasi tutti i problemi che affliggono il paese. Secondo Talbot, i testi dell’album sono una testimonianza del punto in cui il paese si trovava a quel tempo. Pare difficile dargli torto, considerando anche che ben due pezzi (assieme ad uno dei Jam) sono stati scelti, a posteriori, per la colonna sonora del film Billy Elliot, ambientato proprio in questo periodo. “[Questo periodo] ha rappresentato l’ultimo stadio dell’idea tradizionale di operaio” – dice White – “La classe operaria come esisteva allora non esiste più, e questo è dovuto a quel preciso, cruciale momento. Non voglio dire che non fosse giunto il tempo per qualche riforma, ma quello che è successo è che è stata dichiarata guerra aperta a tutti i lavoratori del paese per dimostrare loro che il partito conservatore aveva il potere, che poteva rivoltarti contro la polizia […] e questo era il messaggio della Thatcher alla classe operaia: non provocatemi.”[4]

La famiglia descritta in Homebreakers è quella di Mick (qui anche alla voce) e fornisce un emblema della trasversalità generazionale della crisi: la cassa integrazione da un lato come termine di una carriera, la partenza alla ricerca di qualche possibilità d’inizio dall’altro. Un tratto accomuna le due circostanze: l’essere imposte, subite dall’esterno e dunque ottimi pretesti per “prendersela con l’uomo/che ha ideato questo programma economico”, soprattutto quando la situazione è talmente grave da giungere alla consapevolezza che “Tutto l’amore del mondo non può/portare in tavola la cena/a tutto l’odio che provo nessun amore potrebbe rimediare”. Dall’irreverente accostamento di una cittadina morente (All Gone Away) all’idea che “Da qualche parte la festa non finisce mai/e avide mani si sfregano ancora/andandosene con i guadagni che hanno rubato” sino al manifesto più esplicito e diretto di Internationalists, quello che traspare è un profondo e doloroso senso di ingiustizia. Come To Milton Keynes, una caustica satira della media borghesia, muove dalla presa di consapevolezza che le nuove città create e promosse dal governo (Milton Keynes è proprio una di queste, di cui Weller vede uno spot pubblicitario da cui trae ispirazione) sembrano essere senz’anima (“Una volta inseguivamo sogni/ora inseguiamo il drago[5]”), e si conclude con l’intraducibile ma assolutamente brillante “I read the ad about the private schemes/I liked the idea but now I’m not so Keyne!”. Ma non è solo la quotidianità a trovare spazio, e la cruda violenza degli scontri tra manifestanti e polizia viene raccontata con poche ma efficaci parole in A Stone’s Throw Away, probabilmente il punto più alto a livello lirico di tutto l’album. Dopo The Lodgers e With Everything To Lose a completare la pars destruens e l’interessante esperimento strumentale della traccia che dà il nome all’album, segue una pars construens che vede in chiusura due pezzi ricchi di speranza ed esortazioni. “Non dovete subire questa merda/non dovete sedervi e rilassarvi/potete davvero cercare di cambiare le cose” (Walls Come Tumbling Down!).

Inutile ribadire come, nelle circostanze attuali, l’invito sia ancora valido.

Chiara Marchisotti

 

Fotografia 2: Chiara Marchisotti

Album | Our Favourite Shop
Artista | The Style Council
Anno | 1985
Etichetta | Polydor

 

[1][2][3][4] www.paulweller.com/stylecouncil

[5] “We used to chase dreams/now we chase the dragon”, dove chase the dragon è un modo di dire utilizzato per descrivere il tentativo (vano) di ricreare lo stato di beatitudine provato al primo di utilizzo di sostanze stupefacenti, ovvero il movente che spinge l’utilizzatore a riassumerne, e sempre in quantità maggiore, proprio per riprovare quelle sensazioni positive. Qui si riferisce in particolare all’uso di eroina, diffusosi su più ampia scala in quel periodo.

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