Give Me 5 (Pearl Jam Origin Story Edition) | Vol. 105

Give Me 5 (Pearl Jam Origin Story Edition) | Vol. 105

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Pearl Jam, 1991

Oh dear dad, can you see me now?
I am myself like you, somehow
I’ll wait up in the dark for you to speak to me
I’ll open up
Release me

Non ho mai conosciuto mio padre. Avevo due anni quando è morto e tutto quello che ho di lui sono i racconti di mia madre: belli, puri, ancora innamorati, ma pur sempre racconti. Forse è per questo che a sedici anni mi sono affezionato così tanto ai Pearl Jam e al vissuto nascosto dentro alle loro prime canzoni. Eddie Vedder aveva una storia familiare complessa, ma il suo tormento e la sua energia non erano mai autodistruttivi: c’era sempre una luce, al fondo dell’abisso delle sue liriche.

La storia delle origini della band è una delle mie mitologie rock favorite, poetica come tutto ciò che s’incastra così bene da sembrare inevitabile. Da quando l’ho scoperta, rileggerla e raccontarla a me stesso è sempre stato un modo per sentirmi connesso con il mondo e tenermi in piedi nei momenti scuri.

Ho questo ricordo di un giorno prima di un esame universitario, ormai tanti anni fa: la tensione era così tanta che chiesi a mia madre di passare un po’ di tempo insieme; invece di chiacchierare, però, ci guardammo tutto il Pinkpop 92, con il leggendario stage diving di Eddie.

Ecco: questo Give Me 5 è dedicato ai Pearl Jam, che tornano in Italia fra qualche mese e che mi hanno insegnato che tenersi stretti agli altri è il modo migliore che ci sia per dare un senso all’esistenza. Incidentalmente, è dedicato anche a mia madre e mio padre.

Swallow My Pride | Green River

I Green River sono tra i pionieri del cosiddetto Seattle Sound. Che poi non è un vero suono, non lo sarà mai: il termine grunge, in senso strettamente musicale, è un’etichetta con poco senso. Nel 1984, a Seattle c’è solo un gruppo di ragazzi che, in un mondo di hair metal e pop senz’anima, riprende in mano le chitarre per combattere l’incertezza e il grigiore del nord-ovest americano, mettendo insieme punk e metal. Swallow My Pride (1985) è un piccolo inno garage: alla gola Mark Arm, poi leader dei Mudhoney; al basso e alla chitarra Jeff Ament e Stone Gossard, colonne portanti dei futuri Pearl Jam.

Chloe Dancer / Crown Of Thorns | Mother Love Bone

I Green River si sciolgono nel 1987, non proprio benissimo: Ament e Gossard vorrebbero farsi ascoltare da qualcuno oltre a parenti e amici, Arm se ne va sbattendo la porta e bollandoli come carrieristi. Bassista e chitarrista, però, stanno già provando con un nuovo cantante: si chiama Andrew Wood, ha una passione smodata per il palco e il luccicare dei glitter, e insieme mettono su una band chiamata Mother Love Bone. L’asse sonoro si sposta dal punk/metal a un più canonico hard/glam: Chloe Dancer/Crown Of Thorns (1989) è il loro classico, ballata pianistica che s’ingrossa man mano e che i Pearl Jam ripropongono dal vivo ancora oggi.

Mother Love Bone

Loud Love | Soundgarden

Wood condivide un appartamento con un altro cantante di Seattle, che sta all’opposto dello spettro emotivo rispetto a lui: Andy è socievole, festaiolo e incline all’eccesso; Chris Cornell è ombroso e solitario. Da qualche anno, Cornell si è convertito da batterista a cantante/chitarrista e guida i suoi Soundgarden in un assalto sonoro ignorante e raffinatissimo, debitore tanto di Sabbath e Zeppelin quanto di punk e dark. Loud Love (1989) è il loro album underground più bello e rivela il pazzesco potenziale vocale di Cornell. Nota a margine: alla batteria, come sempre, Matt Cameron, nei Pearl Jam dal 1998 in poi.

Hunger Strike | Temple Of The Dog

Nel marzo del 1990 i Mother Love Bone si accingono a pubblicare il primo album. Tutto sembra procedere per il meglio, perché Andy ha appena deciso di chiudere una volta per tutte con la droga, sottoponendosi a un programma di disintossicazione. Non durerà: il 16 marzo, la fidanzata rientra dal lavoro e lo trova riverso sul letto, in overdose; Andy rimarrà in coma per alcuni giorni, prima che i genitori decidano di staccare le macchine che lo tengono in vita.

Tutta la scena di Seattle è devastata, in particolare Chris e i compagni di band, Jeff e Stone. Cornell scrive di getto due brani, Say Hello To Heaven e Reach Down e decide di riunire Gossard, Ament, il batterista Matt Cameron e un nuovo chitarrista con cui gli ex Mother Love Bone stanno provando, tale Mike McCready. Per questo progetto one-shot scelgono il nome Temple Of The Dog e registrano una decina di dolenti blues elettroacustici.

Un giorno stanno suonando un pezzo in studio. Il nuovo cantante di Jeff e Stone si chiama Eddie Vedder ed è un tipo taciturno: si accorge che Cornell è in difficoltà sui bassi e si unisce alla jam. Ne nasce uno dei singoli chiave del decennio, che è anche l’esordio su disco di Vedder: la sua voce copre il registro inferiore, mentre Cornell punta al cielo. Hunger Strike è una canzone indimenticabile e anche il pezzo che per anni mi ha impedito di andare oltre la traccia 3 di Temple Of The Dog.

Release | Pearl Jam

Indietro di qualche mese. Gossard e Ament sono alla disperata di ricerca di una via fuori dal buio, dopo la morte di Wood. Si mettono a suonare di nuovo insieme, reclutano il chitarrista Mike McCready e – con l’aiuto di Matt Cameron – registrano un demo con tre brani strumentali. La cassetta passa per le mani di Jack Irons (che aveva suonato nei Red Hot Chilli Peppers e sarà nei Pearl Jam per un paio d’anni, in futuro) e arriva a un tizio di San Diego che fa mille lavori per riuscire a coronare il sogno di suonare rock, come nelle migliori favole di Pete Townsend. Si chiama Eddie Vedder e ha alle spalle una storia familiare complessa, un padre che non ha mai conosciuto e un patrigno violento.

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In una notte registra le parti vocali e le rispedisce: quei pezzi sono Alive, Once e Footsteps. Stone e Jeff lo convocano subito a Seattle, il 13 ottobre Eddie arriva e per una settimana la nuova band prova in una galleria d’arte, senza sosta. Ten, uno dei più incredibili esordi rock che la storia ricordi, nasce in otto giorni di creatività esplosiva e febbrile, di anime che si scoprono, di amicizie che nascono.

Stavamo improvvisando sullo strumentale di Release e Eddie cominciò a cantare. Alla fine della registrazione venne da me e disse: “Ho bisogno di parlarti”. Mi raccontò tutta la storia, quello che era successo tra lui e suo padre. Fu un momento molto forte.” (Jeff Ament)

Ed è Release che la band – che all’inizio si chiama Mookie Blaylock, come il giocatore di basket – sceglierà il 22 ottobre 1990 per aprire il primo concerto, all’Off Ramp Café di Seattle. Eddie, appena arrivato in città, la canta a braccia conserte e con gli occhi chiusi: un’invocazione al padre perduto e mai incontrato, piena di malinconia e speranza. Quando aprirà quegli occhi, sarà un uomo adulto capace di prendersi il cuore di una generazione.

Eddie Vedder, agli esordi

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