Ode on a Grecian Urn | John Keats e l’eterna bellezza
Al mio ego ahimè ingombrante tremano vertiginosamente le ginocchia quando il postino suona per consegnarmi un pacco e sono sicurissima che, almeno per questa volta, Amazon Prime non c’entra per niente e io, inoltre, non supero mai i limiti di velocità perché tra gli OCD non mi manca all’appello la ligia osservanza delle norme stradali. Ancora di più mi tremano quando leggo il nome del mittente – ahimè ingombrante, pure lui – perché so per certo di non avergli mai dato il mio indirizzo di casa.
Apro il pacco con una certa cautela ma mi bastano 2cm scarsi di copertina nerissima dalla quale spunta il becco spalancato di un usignolo per sorridere e capire che si tratta di una raccolta di poesie di John Keats. Proprio l’edizione che volevo (non credo di averlo mai detto al mittente, ora che ci penso, ma a questi lampi di intuizione sospetta proprio non ci voglio pensare nel dubbio cambio casa entro la settimana e siamo a posto).
John Keats è l’archetipo del genio romantico morto – in miseria, solitudine e senza l’aura di celebrità che ovviamente si meritava – a 25 anni surclassando tutte gli impavidi romanticoni rock frequentatori d’alberghi Parigini e non del Club 27 che, evidentemente, per gli standard proto-romantici sono vissuti pure troppo.
Con la poesia immensa di John Keats appesa al muro di un fumoso e polveroso salotto letterario inglese ottocentesco i critici suoi contemporanei giocavano animatamente a freccette e anche i suoi amici letterati – seppur lodandone la mente abile, sensibile, fantasiosa, coltissima, domestica – non gli risparmiarono le accuse di follia imperturbabile. Uno di questi cuor di leone usava dargli delle ovattate pacche sulla spalla destra e ripetergli che sì, John, senti qua, la tua mente è senz’altro abilissima e colma di cinguettii celestiali che ballano l’Hula 24h/24h ma tu la stai riducendo alla completa pazzia, quella pazzia senza possibilità di ritorno, John.
E sei pure pieno di debiti, John, tra le altre cose. Sei dilaniato da un’incessante moria tubercolotica di membri della tua famiglia e tutti quei cinguettii che tu traduci in parole paradisiache non ti danno il becco di un penny. Il farmacista! Ecco cosa potresti fare! (gliel’hanno suggerito davvero ma proprio non ce lo vedo Keats a vendere teobromina tra un’invocazione di Apollo e una di Pan scusate) Fai un tentativo, d’altra parte, è più saggio morire di fame facendo il farmacista che il poeta. Così dicono.
Macché. John non ci pensa proprio. Sì, le melodie ascoltate son dolci ma ancora più dolci sono quelle inascoltate e John è da sempre cosciente che la sua sarà un’esistenza postuma e il suo nome rimarrà scritto nell’acqua lungo i secoli.
John Keats amava la bellezza e Ode on a Grecian Urn è un inno alla bellezza eterna, intramontabile, quella classica, figlia del classicismo greco con la sua storia, i suoi miti, le sue divinità e da lui tanto decantato e addomesticato.
La bellezza non ha bisogno di giustificazioni, di spiegazioni, e Keats con una poesia che parla direttamente ai nostri sensi ci conduce in posti migliori di quelli nei quali siamo nostro malgrado precipitati tramite l’elogio di una bellezza intangibile, che supera il tempo. La bellezza confortante di un’urna – puramente decorativa – fredda e statica come l’eternità alla quale appartiene.
Pensare a Keats è come mettere un attimo la mano sotto il mento fare un bel respiro e prendersi qualche minuto per mettersi lì a immaginare quelle povere vittoriane di, non so, Salisbury, che una volta tanto che uscivano di casa contraevano il raffreddore e successivamente la tubercolosi polmonare e morivano tra i 20 e i 30 anni e magari qualcuno sulle loro tombe ci andava a piangere e tirare sassi di nascosto perché ne sentiva terribilmente la mancanza ma nessuno mai portava i mazzi di fiori per non dare nell’occhio però a una un poeta aveva dedicato un’ode neoclassica nella quale paragonava la sua tracotanza a quella di Antigone e le sue gote a quelle di un bengalino e anche il poeta comunque da vivo non se lo filava proprio nessuno ed è morto in condizione di miseria anche lui tra i 20 e i 30 anni di colera contratto in India ma davvero per noi non vedo quale sia il problema perché sento che Sofia Coppola, ben 2 secoli dopo, sta per farci un biopic con gli interni in carta da parati verde pastello e le canzoni degli Strokes e l’attore protagonista è talmente bravo e fa piangere lacrime sincere a tutti che è candidato all’Oscar ma gli Oscar hanno fatto un balzello in avanti e non fanno più distinzioni di genere e il premio migliore attore possono darlo a un attore come a un’attrice e quindi l’ha vinto Meryl Streep che anche lei è protagonista di un biopic. Il biopic è su Angela Merkel. Apri gli occhi.
Noi, dopo tutti i regali gli abbracci i baci i carboidrati complessi i maglioni di lana il picco glicemico le risate il prosecco il caminetto acceso la tombola le lucine stroboscopiche il cane che vuole pure lui un pezzo di lasagna al pesto sentiamo che c’è ancora quell’angolino freddo lì al centro che è rimasto vuoto e nonostante tutti gli sforzi per riempirlo si sente ancora l’eco E ALLORA VA BENE SCHOPENHAUER AVEVI RAGIONE PURE TU CALMATI UN ATTIMO ma noi tiriamo dritto, andiamo avanti sempre perché John Keats ci avverte che la bellezza è verità la verità è bellezza e quindi se proprio dobbiamo consolarci possiamo provare a consolarci davvero con qualsiasi cosa.
Ode on a Grecian Urn
I.
Thou still unravish’d bride of quietness,
Thou foster-child of silence and slow time,
Sylvan historian, who canst thus express
A flowery tale more sweetly than our rhyme:
What leaf-fring’d legend haunts about thy shape
Of deities or mortals, or of both,
In Temple or the dales of Arcady?
What men or gods are these? What maidens loth?
What mad pursuit? What struggle to escape?
What pipes and timbrels? What wild ecstasy?
II.
Heard melodies are sweet, but those unheard
Are sweeter; therefore, ye soft pipes, play on;
Not to the sensul ear, but, more endear’d,
Pipe to the spirit ditties of no tone:
Fair youth, beneath the trees, thou canst not leave
Thy song, nor ever can those trees be bare;
Bold Lover, never, never canst thou kiss,
Though winning near the goal – yet, do not grieve;
She cannot fade, though thou hast not thy bliss,
For ever wilt thou love, and she be fair!
III.
Ah, happy, happy boughs! that cannot shed
Your leaves, nor ever bid the Spring adieu;
And, happy melodist, unwearied,
For ever piping songs for ever new;
More happy love! more happy, happy love!
For ever warm and still to be enjoy’d,
For ever panting, and for ever young;
All breathing human passion far above,
That leaves a heart high-sorrowful and cloy’d,
A burning forehead, and a parching tongue.
IV.
Who are these coming to the sacrifice?
To what green altar, O mysterious priest,
Lead’st thou that heifer lowing at the skies,
And all her silken flanks with garlands drest?
What little town by river or sea shore,
Or mountain-built with peacful citadel,
Is emptied of this folk, this pious morn?
And, little town, thy streets for evermore
Will silent be; and not a soul to tell
Why thou art desolate, can e’er return.
V.
O Attic shape! Fair attitude! with brede
Of marble men and maidens overwrought,
With forest branches and the trodden weed;
Thou, silent form, dost tease us out of thought
As doth eternity: Cold Pastoral!
When old age shall this generation waste,
Thou shalt remain, in midst of other woe
Than ours, a friend to man, to whom thou say’st,
“Beauty is truth, truth beauty,” – that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.