When she talks, I hear the revolution. Storia di Kathleen Hanna
“Quando abbiamo perso di vista il punto? Quando penso ai decenni immediatamente precedenti all’emo di terza generazione – e mi riferisco al punk di Washington, al movimento riot grrrl, a Kurt Cobain che dichiara che le donne sono il futuro del rock – sono sorpresa che sia addirittura successo. Cosa ha generato una simile svolta vendicativa in questo pseudo-punk?”
In un bel pezzo uscito su Pitchfork qualche giorno fa, Jenn Pelly descriveva la scena emo d’inizio millennio, in retrospettiva esplicitamente misogina. All’origine dell’articolo ci sono le accuse di molestie sessuali di almeno due donne – al tempo dei fatti minorenni – nei confronti di Jesse Lacey, leader di quei Brand New che del movimento erano una delle punte di diamante.
Di nefandezze sessiste è piena la storia del rock, ma band come i Glassjaw o gli stessi Brand New non si risparmiavano, su questo tema, arrivando a toni davvero truci che all’epoca, ora lo sappiamo, non furono presi in sufficiente considerazione – provate oggi a googlare “Brand New rape date song” e capirete meglio cosa intendo. E Pelly si domanda non retoricamente come sia stato possibile arrivare a questo proprio nel punk, dimenticando la lezione di Fugazi e Nirvana – sempre schierati su posizioni apertamente femministe. Soprattutto, come si sia persa l’influenza di gente come Kathleen Hanna, un canto che ancora oggi è il puro suono della rivoluzione.
“Penso semplicemente che ci sia questa convinzione per cui quando un uomo dice la verità, quella è la verità. E quando, come donna, dico la verità, sento di dover sempre negoziare il modo in cui verrò percepita. Come se ci fosse sempre un sospetto, riguardo alla verità di una donna. L’idea che tu stia esagerando.”
Sono queste le parole che Kathleen sceglie per chiudere l’intervista posta in calce a The Punk Singer, splendido documentario vecchio ormai di qualche anno che racconta la vita e le opere di una cantante che da più di un quarto di secolo incarna perfettamente l’ideale di espressione artistica intesa come attivismo. Tutto quello che Kathleen Hanna ha cantato, detto, scritto e perfino disegnato è concetto, femminismo, politica.
La prima band importante di Kathleen Hanna nasce nel 1990, quando qualcuno – Kathy Acker in persona – le fa notare che se intende farsi ascoltare avrà bisogno di qualcosa di più di qualche spoken word: ha bisogno di una band, e nelle Bikini Kill trova tutto il volume di cui ha bisogno. Quello che nasce da un lavoro di scrittura sempre collettivo è punk sfrontato e femminista, emotivo e tagliente: prendete i loro inni (Feels Blind, Double Dare Ya, Rebel Girl), fateli partire e dopo mezzo minuto vi ritroverete a urlarli a pugno chiuso. Roba che le giovani Sleater-Kinney manderanno a memoria, prima di farsi a propria volta leggenda.
Ogni concerto è una guerra. Perché semplicemente – ricorda un’adorante Carrie Brownstein – nessuno era pronto a sentirsi dare ordini dal palco, sfidato su tematiche importanti durante uno show, men che meno se a farlo era una minuscola ventenne. Kathleen invita le ragazze ad avvicinarsi allo stage – zona solitamente off-limits per via della violenza del pogo – e affronta a muso duro i ragazzi violenti e molesti: nessuno che subisca abusi deve essere abbandonato a se stesso. Terribilmente attuale, vero?
Le Bikini Kill durano – incredibile a dirsi – quasi un decennio. In mezzo ci sono la nascita del movimento riot grrrl, che prende le mosse da una fanzine realizzata da Kathleen con altre artiste; un media blackout che la porta a rilasciare interviste indossando una maschera; l’amicizia con Kurt Cobain e la relazione con Adam Horowitz dei Beastie Boys, che sposerà nel 2006. E non è un caso, a ben pensarci, che uno che per pura spacconeria negli anni ‘80 cantava cose come “girls, girls, girls, do my laundry” finisca per essere l’unico a parlare degli otto casi di stupro di Woodstock ‘99 agli MTV Awards.
A seguire arrivano altri progetti: il primo è quello omonimo del 1998 a nome The Julie Ruin; un album notevole, l’alternative che cerca rifugio nell’elettronica e nell’autoproduzione da cameretta dopo la sbornia di successo dei Novanta – tenete a mente il nome, perché ritornerà.
“Le stanze delle ragazze possono essere veramente posti pieni di creatività. Il problema è che queste stanze sono tutte separate dalle altre. Volevo che questo disco a nome Julie Ruin suonasse come se l’avesse fatto una di queste ragazze nella propria stanza, ma poi, invece di buttarlo via o farne un diario, l’avesse pubblicato e condiviso con altre persone.”
Comunità, condivisione. E anche provocazione che ritorna, nel situazionismo dei tre album a nome Le Tigre: electroclash divertente, spavalda, mezzo che si fa messaggio. Un femminismo sensuale, riflessioni imponenti infilate in vestiti stretti e sgargianti; canzoni di buon successo, allora, che riascoltate oggi fanno ancora più impressione, anticipando di almeno una decina di anni quella tendenza a colorare di tinte pop anche le tematiche più impegnative. Le Tigre, l’album omonimo, rappresenta la maturità artistica di Hanna.
Poi. Poi arriva, improvviso, uno stop che sembra durare ere geologiche: la malattia di Lyme, diagnosticata solo in uno stadio avanzato, terrà lontana dai palchi per molti anni una delle più importanti performer degli ultimi decenni. Tornerà più forte di prima, con due nuovi album a nome The Julie Ruin – l’ultimo, Hit Reset, una vera bomba. E Kathleen è sempre lì, a spargere i semi della rivoluzione, pronta a prendere a calci nei denti ogni preconcetto sessista:
“mi spiace così tanto di alienare qualcuno di voi
ma l’intera vostra fottuta cultura aliena me”