Solitudini e incontri nella piana di Gaver
Gàaver nel mio dialetto significa “persona rozza e maleducata”: è quindi facile comprendere perché nutrissi un po’ di diffidenza, la prima volta che mi hanno portata nella piana di Gaver.
Il fatto che da allora non abbia mai smesso di tornarci, spesso sola, spesso decidendo la mattina stessa, è la testimonianza di un amore, forse ricambiato, per un piccolo paradiso nascosto tra le Prealpi bresciane.
La strada è facile: si costeggia il lago d’Idro fino ad Anfo, qui si inizia a salire fino a Bagolino, patria del formaggio Bagòss e del famoso carnevale. Si raggiunge il paesino Valle Dorizzo e si prosegue tra boschi e legna accatastata risalendo tutta l’alta valle del Caffaro fino a una piana su cui si affaccia il Cornone di Blumone, massiccio di dolomia bello e spavaldo, che sembra sfidare alla salita.
Mentre percorro in macchina gli ultimi tornanti cerco di ricordare da dove parta il mio sentiero. Le coordinate sono semplici: devo scendere a fianco dell’albergo Blumon Break e parcheggiare poco oltre la Locanda Gaver, all’altezza di una chiesetta. Arrivata qui inizio a salire nel bosco accompagnata solo dal fruscio dei rami e delle foglie; per quasi un’ora cammino tra gli alberi e i funghi, abituandomi passo dopo passo alla solitudine. All’improvviso, sul sentiero, appare il primo essere umano: è un giovane in tutina tecnica che si lamenta del freddo e sta tornando indietro. Poco dopo appaiono altri due uomini, scendono dalla montagna controllando da lontano le loro capre, scopro che conoscono il pastore Aldo e la baita Foppane e mentre li guardo allontanarsi penso che ci debba essere una specie di grande internazionale dei pastori, il che spiegherebbe il fatto che si conoscono tutti, anche cambiando valle e provincia.
Il terzo incontro, a destinazione raggiunta, è la signora del rifugio Tita Secchi, che corre verso il lago della Vacca con il nipotino per mano, tutto bardato nella giacca a vento, gridandogli: “mamma, c’è un vento che ci porta via! Corri!”. Mi vede e mi indica il portico del rifugio per ripararmi, la struttura è ormai chiusa ed è rimasta solo lei, alle pendici del Blumone, col nipotino e qualcuno su una ruspa che fa manutenzione del sentiero. In questo mese di bassa stagione i tre accolgono, come possibile, i vagabondi e gli avventurieri della montagna. Sotto il portico trovo appunto gli altri cocciuti che come me non si sono rassegnati all’autunno e alla chiusura del rifugio: ognuno mangia il suo panino scrutando l’orizzonte, chissà se arrivano dal Passo del Termine, dalla Malga Cadino o dal Passo Croce Domini, non ho il coraggio di chiedere e salgo in silenzio verso l’ingresso cercando il timbro, bottino immancabile di ogni rifugio.
Prima della porta, inevitabilmente chiusa, trovo solo una poesia:
Grazie, signor Terenzio da Brescia, ora il Blumone mi sembra ancora più bello e del timbro al di là della porta non m’interessa più così tanto.
Comincio la discesa costeggiando la diga e il Lago della Vacca, che prende il nome da una famosa roccia a forma di bovino, poco distante. Un uomo sulla soglia del piccolo edificio appena sotto al rifugio mi osserva, lo saluto come si usa in montagna e lui mi invita ad entrare nel vero rifugio, quello aperto, quello dove posso trovare addirittura una birretta. Senza capire bene come e perché, un minuto dopo mi trovo seduta al tavolo della casa dei guardiani della diga, mi offrono birra e formaggio di capra, scopro un mondo di pareti perlinate, una radiolina per ascoltare la musica dalla pianura e una vista incredibile dalla porta vetri: montagne a perdita d’occhio e lontano; all’orizzonte, il Lago di Garda. Anche la Signora del Tita Secchi arriva a salutare e parlare del nipotino, lasciato ad osservare i lavori della ruspa. Rifiutando a malincuore una pasta gorgonzola e noci saluto i tre guardiani e la loro vita incredibile e parto a passo svelto verso la macchina, con il Blumone alle spalle.
Prima di lasciare la Piana di Gaver c’è un altro posto che davvero non si può non salutare: i laghi di Bruffione. Ci vuole circa un’ora di camminata nel bosco che conduce dall’Alimentari Bruffione all’omonima Malga e da lì ancora un buon quarto d’ora di salita un po’ più ostinata, fino a raggiungere, nascosti tra le montagne, due laghetti che in autunno riflettono nelle loro acque il giallo dei larici attorno. Il laghi di Bruffione, ai piedi del passo del Brealone, a ottobre sono il posto più bello dove leggere un libro e contemplare i colori del cielo, delle montagne attorno, dell’acqua e della terra rossiccia. È pomeriggio e non c’è anima viva, ho incrociato una comitiva chiassosa poco prima della malga e da allora né animali né umani hanno accompagnato il mio cammino verso questo luogo incantato. Non c’è alcun pericolo ma lo avverto nel semplice fatto di essere da sola.
Vorrei restare per ore, ma sono un animale sociale e non so stare in solitudine quanto e come vorrei, quindi scendo veloce, promettendo di tornare, a fine mese, quando al giallo e al marrone si mescolerà il rosso degli alberi e forse il bianco della neve.
Ciao Gaver, posso dire a tutti che non sei per nulla un gàaver.