Wes Anderson all’ennesima potenza: Fantastic Mr. Fox
17 secondi, solo 17 secondi e risulta chiaro che quello a cui si sta per assistere è un film di Wes Anderson. Già nei titoli di testa si vedono infatti alcuni tratti tipici del regista come la saturazione dei colori e alcuni espedienti già visti nei suoi precedenti lavori (cfr. la copertina del libro e la suddivisione in capitoli), prima di parlare dell’accuratezza stilistica del film permettetemi però di fare un passo indietro.
Sono un grande estimatore del regista Texano, ma ho spento le 26 candeline senza aver mai visto il suo (ad ora) unico film d’animazione: Fantastic Mr. Fox (si lo so, faccio mea culpa). Imputo questa mia mancanza ad un’avversione nei confronti dello Stop-motion dovuta probabilmente ad un trauma giovanile riportato in seguito alla visione di Galline in fuga, una delle più grandi delusioni della mia infanzia. Ecco dunque che l’altra sera, cercando di rifuggire il grigiore del primo freddo, ho sentito il bisogno di calarmi in quelle atmosfere colorate che solo il Nostro sa creare e quindi sorvolando sulle occhiatacce e sui commenti sarcastici di mio fratello (perdonatelo, la sua saga preferita è Fast and Furious) ho deciso di addentrarmi nel micro universo di Fantastic Mr. Fox e ne son rimasto incredibilmente affascinato.
Primo film d’animazione e primo soggetto non originale per Wes Anderson, la sceneggiatura è infatti un adattamento del romanzo di Roald Dahl Furbo, il signor Volpe, al quale vengono apportate alcune modifiche e aggiunte causa la brevità del racconto originale.
La pellicola si apre con un piccolo antefatto in cui la volpe Mr. Fox e la sua compagna Mrs. Felicity durante una battuta di caccia vengono catturati, la moglie del protagonista rivela quindi di essere incinta e fa promettere al marito che, qualora si fossero salvati, avrebbe abbandonato le scorribande a favore di una vita più tranquilla. La storia ha quindi un salto temporale lungo 2 (12) anni (volpe), ritroviamo un signor Fox imborghesito, insoddisfatto editore per una rubrica poco seguita, a capo di quella che potrebbe rispecchiare la famiglia media americana: mogliettina che adempie spensierata al ruolo di madre e dispensa pillole di filosofia spicciola (“Noi siamo poveri, ma siamo felici”) e figlio in piena ribellione adolescenziale. Mr. Fox, insoddisfatto dalla monotonia della vita e desideroso di aumentare il suo status sociale, da bravo borghese DOC decide di trasferirsi in una casa più lussuosa nonostante questa sorga “nella zona più pericolosa del paese per uno della sua specie”, vicino alle aziende di tre terribili fattori. Il protagonista ingolosito ricade vittima del suo istinto animalesco e viene meno alla promessa fatta 12 anni prima. Sgraffignando a destra e a manca causa l’ira dei tre allevatori che, determinati nel catturarlo, mettono sotto assedio la comunità animale che si troverà quindi in pericolo a causa delle bravate del signor Fox.
In questo progetto, che lui stesso ha confessato essere frutto di un lavoro durato circa 10 anni, Wes Anderson porta all’estremo la sua ossessione stilistica. Avendo la possibilità di lavorare su una “tabula rasa”, su un foglio bianco, ecco dunque che ogni scena presenta i suoi tratti tipici, la ricercatezza delle tinte, l’artificiosità delle inquadrature e la simmetria quasi maniacale. Con Fantastic Mr. Fox Wes Anderson eleva sé stesso all’ennesima, tanto nelle scelte stilistiche quanto nelle tematiche trattate: ancora una volta il regista pone i riflettori del suo cinema sui rapporti familiari, tema onnipresente nella filmografia del Texano. Il desiderio di affermazione del figlio agli occhi del padre è qui trattato con tutti gli stilemi tipici del genere lasciando però affiorare una sottile vena parodistica: il “diverso” e incompreso Ash, vede il talentuoso cugino Kristofferson, più abile di lui in ogni disciplina, come un rivale con il quale competere per ottenere le attenzioni del padre.
Se il travagliato rapporto familiare è motore delle vicende di film come The Royal Tenenbaums e The Darjeeling Limited qui è invece un intelligente e riuscito sub-plot che accompagna quella che è la tematica centrale del film: l’irreversibilità della natura. Il mondo animale che Anderson dipinge è in tutto e per tutto umanizzato, le leggi morali che regolano questo universo sono infatti le stesse che governano la società umana e il fatto che il protagonista ricada nell’istinto selvatico della caccia è un’eccezione più che la regola. E’ proprio questa la differenza sostanziale che sta tra la pellicola e il romanzo di Dahl, nel quale i personaggi sono sì antropomorfizzati, ma conservano comunque il loro lato animalesco. Rendere quella animale come una vera e propria società borghese permette al regista di evidenziare come (solo) per il Signor Fox sia difficile sopprimere i suoi istinti primordiali. Dopo un digiuno lungo 12 anni, la volpe, cacciatrice per eccellenza, non riesce a trattenersi dal fare quello che selvaticamente è nella sua natura, dando così il “la” a tutta la vicenda. Degno di nota a tal proposito è il discorso pseudo-militaresco durante il quale Mr. Fox, attraverso il “nome scientifico latineggiante”, invoca l’istinto selvatico soppresso di ogni membro della comunità. E’ proprio attraverso il nome latino che i personaggi, accantonate le caratteristiche umane, si riappropriano di quelle animalesche: ecco dunque che la talpa non è più un musicista di talento bensì un animale capace di vedere al buio, il coniglio non è più uno chef eccezionale ma un essere dotato di straordinaria velocità. Non è un caso che l’opossum Kilye, il quale sembra non possedere alcun nome scientifico, non abbia nemmeno delle peculiarità selvatiche proprie e, per caratterizzarsi, debba inventare un segnale personale.
Wes Anderson mette in scena anche in questa sua opera un universo chiuso di personaggi eterogeneamente caratterizzati ma indimenticabili, macchiette riconoscibili dai propri gesti, dagli atteggiamenti e dagli indumenti (vedere l’abbigliamento con mantello di Ash). Il film, che si presenta come un’opera di formazione e di riscatto, stilisticamente eleva Anderson alla N, ma si discosta per quanto riguarda quel senso di sconsolatezza che sembra insito in ogni film del Regista. Non c’è posto in questa pellicola per quei finali agrodolci di cui cantano “I Cani” (riferimento al mondo Indie più che dovuto visto il film di cui si parla), nonostante vi siano diversi spunti di riflessione non è riscontrabile alcuna vena drammatica e, attraverso gag comiche che rimandano ad altri generi (western/musical), Wes Anderson ci regala una commedia d’animazione di pregiata fattura.
Mario Rebussi