Londra | La Saatchi Gallery, i selfie e i Kyoto Garden
Circondata da un prato tagliato al millimetro, la Saatchi Gallery è uno dei cuori pulsanti di Chelsea, distretto londinese crocevia di stilisti e nobiltà varie, attraversato dalla King’s Road, fulcro della moda mondiale negli anni 60, e già dimora di Oscar Wilde, Re Enrico VIII e sir Francis Bacon.
Nel piccolo giardino antistante la galleria, le mattine d’estate schiere di bambini in grembiule e pantaloncini corrono seguendo gli ordini degli insegnanti. Intorno è tutto un brulicare della tipica fretta londinese mescolata alla clientela della miriade di ristoranti che si affacciano da case basse con mattoni a vista. Molti sono italiani e all’ora di pranzo si riempiono di avvocati, impiegati, finanzieri e decine di giovani lavoratori in un vociare da meeting pot linguistico.
E’ un’edificio in apparenza neoclassico dall’esterno, ma, entrando, la Saatchi Gallery rivela – anche nell’architettura – la sua missione di “casa” dell’arte contemporanea. Tra i suoi corridoi si alternano, a cadenza di solito semestrale, esibizioni e mostre tra le più disparate. Al momento, fino al 23 Luglio 2017, ad esempio, è in corso una mostra sull’arte del selfie realizzata in collaborazione con Huawei: ne esplora la storia e il rapporto cangiante con quella che è diventata una vera e propria forma di espressione post moderna. Sembra, in apparenza, una delle tante mostre che tentano di dare nobiltà a uno sfogo egotico. Sembra un’ironia della sorte inciampare in questa mostra dopo essermi soffermato nel parco a leggere un altro po’ di pagine di “Ognuno potrebbe” di Michele Serra, un affresco feroce della modernità dove il “telefono” è chiamato “egofono” e dove al pronto soccorso si inizia a diagnosticare la “sindrome da sguardo basso” per dare un nome e un’etichetta ai “feriti da cellulare”. Sarà anche e soprattutto per questo che trovo divertente che le prime opere che incontro entrando sono degli autoritratti di Rembrandt, Van Gogh e Frida Kahlo. Non ci sono valori e speculazioni estetiche, però. C’è una linea del tempo che viene percorsa e che dà e cambia all’astante la prospettiva del gesto. Il selfie, appunto. Dal sedicesimo secolo a oggi. Da quando a potersi autoritrarre era solo chi aveva materiali e competenze, a quando improvvisamente a tutti è stato dato il potere di farlo. Kim Kardashian inclusa. Chest’è. E così da Rembrandt si passa a Stanley Kubrick che fissa lo sguardo dentro uno specchio mentre si fotografa, fino a George Harrison che si scatta una foto di fronte al Taj Mahal.
C’è una stanza, tra tutte, che impressiona. La stanza del rumore di fondo. Su tre pareti sono proiettati milioni di selfie video pubblicati dagli utenti su Youtube. Milioni di persone che parlano in apparenza verso il nulla. Un effetto straniante e – talvolta – di desolante rumore. “Hello world! Or: how I learned to stop listening and love the noise”, questo è il titolo dell’opera di Cristopher Baker. Nei corridoi perfetti della Saatchi si alternano bianco fresco e mattoni a vista, mostre e progetti fotografici e angoli di silenzioso raccoglimento che continuano sul prato all’uscita.
Vale la pena mettersi a camminare, uscendo, su fino ad Hyde Park per poi girare a sinistra fino ai Kyoto Garden. Sono circa 2,5 chilometri di camminata nell’ordine immacolato di Kensington. Un itinerario antifrastico. Dallo sfogo tecnologico asiatico della mostra con Huawei, alle tradizionali calma e sobrietà dei giardini giapponesi. I Kyoto Garden sono un vero e proprio angolo di Giappone nel cuore di Londra. Situati all’interno di Holland Park, questi Garden sono uno dei luoghi che la capitale inglese custodisce più gelosamente.
La quiete che vi si respira è qualcosa di incredibile, se paragonata al caos che ti lasci alle spalle entrando. Pesci, cascatelle, pavoni e piante di ogni genere. Una signora inglese, notando il mio sguardo ammirato, mi ferma e mi racconta che il momento migliore dell’anno è la primavera: “le vedi quelle piante? Sono tutti ciliegi. Quando sono in fiore è proprio come laggiù. Ci sono stata, sai?”.
Se provate a fare rumore, ad accendere musica, riprodurre video o urlare dentro il telefono, in pochi minuti si paleserà una guardia dal nulla chiedendovi di smettere. Nell’itinerario antifrastico dalla Gallery a questo luogo di silenzio e paesaggisti assiepati sulle panchine, sembra quasi di aver cambiato secolo e dimensione.
Nel dubbio, mi scatto un selfie sull’erba.
In silenzio.