Cheers to the Great Gatsby!
Estate 1922. A Long Island, New York, un uomo elegante, solo, in piedi sul molo della sua lussuosa casa davanti all’acqua nera della notte, allunga una mano, come per afferrare una luce dall’altra parte del buio. Quell’uomo si fa chiamare Jay Gatsby. Ma per tutti è e sarà sempre The Great Gatsby.
“James Gatz: era questo il suo nome vero, o almeno quello legale. Lo aveva cambiato a diciassette anni, nel momento in cui ebbe inizio la sua carriera”.
Personaggio simbolo del meglio e del peggio dei Roaring twenties, fu creato dalla penna tanto acuta quanto nevrotica di Francis Scott Fitzgerald nel 1925, troppo presto perché quell’enorme profezia romanzata sulle sorti della società americana che “Il grande Gatsby” è potesse essere compresa. Non diversamente da quello che inscena la parabola discendente del ricco e innamorato Gatsby, infatti, Fitzgerald aveva conosciuto nella sua vita il trauma del sogno infranto, della fortuna distrutta, dell’alcolismo e della solitudine e in qualche modo aveva compreso che la sua sorte s’inscriveva in una più vasta deriva collettiva.
Seguendo la narrazione del giovane Nick Carraway, appena trasferitosi in una modesta residenza a Long Island per seguire un impiego in borsa a New York, scopriamo che nell’immensa tenuta del suo vicino di casa ogni sera orde di sconosciuti dell’upper class newyorkese (o presunte tali) si abbandonano al lusso più esasperato, tra musica, balli, champagne, bagni in piscina, sesso. Il tutto placidamente offerto dal padrone di casa, di cui però nessuno conosce il volto, né la storia, ma solo il nome e la magnanimità. Si dice abbia ucciso un uomo, Gatsby, o che si sia arricchito col contrabbando, che sia un gangster o che addirittura non esista affatto. Una cosa è sicura, Gatsby è un mito.
Contrariamente a quello che Nick si aspetterebbe da un uomo tanto misterioso, dopo vari inviti, Gatsby farà la sua comparsa a casa di Nick rivelandogli il motivo del gran teatro che montava ogni volta nelle sue feste: desiderava incontrare Daisy, cugina di Nick, a cui anni prima aveva giurato amore eterno ma che adesso era sposata con un arrogante aristocratico, con cui viveva al di là della baia. Così vicina e così irraggiungibile.
Aveva fatto tutto per lei, la sua immensa fortuna in qualche modo Gatsby la doveva a Daisy, all’amore insaziabile che l’aveva portato fin là, alla certezza che incontrandola ancora l’avrebbe riconquistata. È il sogno americano fatto uomo, Gatsby. È la speranza fondata di dirigere il proprio destino dove si vuole con successo, nella convinzione che il denaro sia il segno della propria fortuna, del meritato happy ending. Gatsby ha costruito la sua storia così, aggiustando la realtà a suo piacimento perché combaciasse coi suoi piani, ha mentito a se stesso e si è alimentato della fama oscura che lasciava proliferargli attorno.
Era il tempo del proibizionismo, dei bar clandestini, della bolla finanziaria ancora non collassata su se stessa, dell’ottimismo cieco, il tempo della miopia americana dello sviluppo a tutti i costi, in cui l’alcol serviva a disinfettare le ferite sociali, a inebriare i ricchi e anestetizzare i poveri. Il divertimento, letteralmente, era indispensabile a fare girare lo sguardo altrove ai primi, a farli perdere nelle loro beghe di potere, discutendo di banalità, lasciandoli persi nel vuoto dello sfarzo. Mentre per chi viveva nella “valle delle ceneri”, come il meccanico Wilson e sua moglie Myrtle, amante dell’arrogante marito di Daisy, Tom, all’alcol non aveva nemmeno accesso. L’illecito del bere, la menzogna dorata della bottiglia, era a uso e consumo esclusivo degli stessi che su quel contrabbando lucravano. Tutti gli altri erano poco più che scarti di lavorazione, il famoso prezzo del capitalismo, le cui scorie umane si mischiavano alle scorie industriali, a quelle ceneri su cui vigilavano gli occhi del Grande Fratello, gli occhi giganti e non a caso dotati di lenti che Fitzgerald rappresenta stampati su un enorme cartellone pubblicitario di un ottico, proprio davanti alla casa del meccanico Wilson.
Sotto quello sguardo fittizio, realtà solo riprodotta nell’immagine funzionale al mercato, i destini dei ricchi e quelli dei poveri s’incroceranno proprio a causa dell’alcol.
Un pomeriggio, quando finalmente Gatsby ha incontrato Daisy ed è certo che lei lo assecondi nel suo piano d’amore, Tom propone una gita a New York per fuggire dall’aria pesante che si era creata a Long Island. Le provocazioni del marito violento e sospettoso contro Gatsby faranno vacillare Daisy, incapace di negare l’amore per il marito e di affermare quindi quello per Gatsby.
“Ma ad ogni parola lei si ritirava sempre più in se stessa, finché lui rinunciò e soltanto il sogno morto continuò a battersi mentre il pomeriggio svaniva, cercando di toccare ciò che era di più tangibile, sforzandosi, infelice e senza disperazione, di raggiungere la voce perduta di là dalla stanza”
Così berranno, tutti, per non ammettere la verità che comincia a delinearsi, berranno e scapperanno, tutti, con le loro macchine potenti. “Sarà divertente” si convince Daisy, proponendo uno scambio d’auto tra Tom e Gatsby. Peccato che arrivati nella valle delle ceneri, sotto gli occhi di carta del dottor E., Myrtle, riconoscendo l’auto di Tom, le si pari davanti, restando travolta e morendo sul colpo. Convintosi che fosse Gatsby a guidare, Tom, doppiamente ferito, si vendicherà aizzando Wilson contro Gatsby. Solo Nick sapeva che in realtà era Daisy a guidare, e che Gatsby aveva deciso di mentire addossandosi la colpa per proteggerla. Inevitabilmente, Gatsby morirà per mano di Wilson, senza più Daisy, senza più sogni, senza poter più fingere di non vedere il suo fallimento.
“E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter più sfuggire. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia… e una bella mattina… Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato.”
Roaring drinks, ovvero istruzioni per una sbronza infelice ma di classe
Una cosa è certa: se c’è qualcuno, nel pantheon della letteratura, con un vero talento nell’organizzare festini orgiastici decadenti imbellettati di scintillio capitalista quello è Gatsby (nessun George che no Martini no party, nessun balletto in mutande a bordo piscina coi cuori di Instagram, che dio ci perdoni).
Qui solo lusso sfrenato, che sennò che lusso è? In scena piume, cristalli, fuochi d’artificio, jazz e, soprattutto, alcol. Fiumi di alcol, cascate di alcol, mari di alcol, che dico, oceani di alcol, alcol nei calici, dalle bottiglie, dalle fontane. Gin, whisky, champagne, martini, curaçao…
Ladies and gentleman, ecco a voi il proibizionismo prêt-à-porter.
Non fatevi illudere dalle apparenze, questo cocktail viene servito in bicchieri stracolmi di ghiaccio solo perché la sensazione di calore invadente del gin va attenuata, così ne berrete facilmente più del dovuto. Riempite per metà lo shaker con ghiaccio e aggiungete 6 cucchiai di gin, 2 cucchiai di limone fresco e scuotete per 5 secondi. Regola d’oro del bar tender: a ogni cocktail il suo bicchiere. Versate quindi in bicchieri detti Highball (cioè quelli alti e dritti) già pieni di ghiaccio fino all’orlo, terminate con uno spruzzo di soda e decorate con una fettina di lime.
Curaçao cocktail:
Il blu curaçao fa sempre la sua figura: basta shakerarlo con ghiaccio a cubetti fino a riempire metà shaker e servirlo nei bicchieri da Martini, aggiungendo una ciliegia al Maraschino. Lo chef consiglia: fatevi accompagnare a casa.
Mimosa:
Molto femminile già dal nome, eppure vi giuro che un omaccione come Gatsby lo beveva quotidianamente, come noi beviamo la spremutina senza zucchero Santal. Uguale. Spremete il succo di una o due arance filtrandolo con un colino e lasciatelo riposare in frigo per un paio d’ore. Subito prima di servire il cocktail riempite le coppe da champagne per un quarto di succo d’arancia e per un altro quarto, appunto, di champagne (così che il bicchiere sia pieno per metà). Aggiungete del ghiaccio e una strisciolina di buccia di limone candito.
Mint Julep:
Pensavate che zucchero e menta uguale mojito? Poracci. Questo è l’antenato nobile delle robacce da beach party che ci sbobbiamo oggi, è lo zio d’America (Nord America) del cocktail finto cubano e come tale merita rispetto. Per ogni bicchiere servono 5/6 foglie di menta fresca, un cucchiaino di zucchero bianco, ghiaccio tritato grossolanamente senza avarizia, Bourbon e soda in dosi uguali (60 ml). Mettete le foglie di menta sul fondo di un bicchiere Higball (avete capito che sono il must dell’estate, accattatevill’) pestatele con lo zucchero, aggiungete quindi il ghiaccio, il Bourbon e metà della soda. Mescolate e aggiungete solo subito prima di servire il resto della soda.