Broken Flowers: i fiori appassiti di Jim Jarmush
“Words disappear, words weren’t so clear, only echos passing through the night
The lines on my face, your fingers once traced, fading reflection of what was”
Inizia così, con le note di There is an End dei Greenhornes, Broken Flowers, film di Jim Jarmush del 2005. Una colonna sonora che canta la fine, il dissolversi di ogni stagione, lo sbiadire dei ricordi e dei gesti. Una fine che in realtà è un lento mutare dell’ambiente e delle circostanze, dove noi siamo al centro, immobili e impotenti spettatori.
Le note della canzone sembrano così anticiparci il tema centrale del film, mentre sullo schermo la storia ha inizio con una bellissima sequenza: la telecamera segue una lettera rosa. Da quando viene battuta a macchina e poi imbucata, a quando viene smistata negli uffici postali, a quando viene caricata sul camion per la consegna. La lettera arriva alla fine davanti a Don (un imperturbabile Bill Murray), un uomo che nella vita ha avuto successo, ma ormai sembra annoiato da ogni cosa: lo conosciamo nel momento in cui viene mollato dalla fidanzata (molto più giovane di lui), senza mostrare nessuna particolare reazione.
L’apatia è la compagna principale della vita di Don. L’uomo sembra avere ancora un istinto di vitalità solo quando è a casa di Wilson, suo (unico?) amico e vicino di casa, che vive con la moglie e i figli piccoli. Jarmush sottolinea molto bene questa diversità accompagnando lo spettatore in una carrellata che tocca prima la casa di Wilson, colorata, disordinata, con i giocattoli abbandonati in giardino e illuminata dal sole, poi, subito accanto, la casa di Don, ordinata e silenziosa, con l’erba tagliata e stranamente in ombra.
La lettera rosa irrompe in questa quotidianità stanca, riportando a galla il passato di Don, che intuiamo essere stato un dongiovanni (all’inizio del film sta guardando Don Juan, e il suo stesso nome lo qualifica come un dongiovanni moderno, annoiato e stanco). Nella lettera una delle donne del suo passato gli confessa di avere avuto da lui un figlio, ormai adulo, che è partito di nascosto alla ricerca del padre. La lettera non è firmata e non c’è modo di risalire alla mittente. All’inizio Don non sembra particolarmente colpito dalla notizia, ma Wilson, contrapponendo ancora una volta la sua vitalità all’apatia di Don, lo convince a intraprendere un viaggio che lo riporterà indietro nel tempo, per scoprire che quello che è stato non esiste più. Don parte con una macchina a noleggio e un cd del jazzista etiope Astatke (“i suoni etiopi fanno bene al cuore!”), per cercare di scoprire chi sia la mittente della lettera, il rosa il suo unico filo conduttore.
Il film è quindi un road trip nel tipico senso inteso da Jarmush: una ricerca. Non solo ricerca della donna che ha spedito la lettera, ma anche ricerca di qualcosa che Don ormai ha perso e che possa (ri)dare un senso alla sua vita.
Sulla strada quindi incontriamo le donne di Don, ognuna caratterizzata in qualche modo dal colore rosa, ognuna diversa dall’altra, ma diversa anche dalla ragazza che era stata.
C’è Laura, interpretata da una sempre bellissima Sharon Stone, che in qualche modo rappresenta ancora la vita. Lei e la figlia Lola (richiamo esplicito alla Lolita di Nabokov) vivono in modo precario e disordinato, ma sono piene di vitalità e colore. È qui che il rosa si carica e diventa quasi fuxia. Don è attratto da questa vitalità che non ha più (come succede anche con la famiglia di Wilson), ma non è in grado di comprenderla fino in fondo e non riuscirebbe mai ad abbandonarvisi.
C’è Dora (Frances Conroy), che tiene in salotto la fotografia incorniciata di lei vent’anni prima, giovane hippy con capelli lunghi e coroncina di fiori, ma ora è sposata con un agente immobiliare. Frustrazione e borghesia racchiusi in una casa con quadri a tinte rosa pastello.
C’è Carmen (Jessica Lange), che parla con gli animali ed è diventata lesbica (se la fa con la segretaria, per la serie clichè ribaltato in nome del girl power). Rosa acceso e new age, che non riesce però a mascherare le fragilità della natura umana.
C’è Penny, la sempre bravissima Tilda Swinton, che di rosa ha poco: una motocicletta e una macchina da scrivere abbandonata in giardino, ma ancora tanta rabbia da rovesciare addosso a Don.
Ed infine c’è la tomba di Helen, dove Don finalmente piange, si commuove, vive.
Non c’è pessimismo in questa ricerca di Jarmush, quanto piuttosto una grande lucidità di analisi: attraverso il suo viaggio Don riscopre i fiori appassiti, che non sono solo i suoi vecchi amori, ma anche la vita che ha vissuto, gli ideali in cui (forse) credeva, gli anni ’70. (Non a caso il film è dedicato a Jean Eustache, regista francese che nel suo film più famoso, La Maman et la Putain, parla proprio della generazione del ’68).
“Il passato è passato, questo lo so. E il futuro non è ancora arrivato. Qualunque cosa sia, dunque, l’unica cosa che esiste è questa. Il presente. Così è.” Queste le parole di Don a un ragazzo incontrato alla fine del suo viaggio (e che lui immagina essere il figlio mai conosciuto). Jarmush non trova una risposta alle domande esistenziali di Don, perché una risposta non esiste.
Ma la consapevolezza è un buon punto di partenza.
Titolo Originale: Broken Flowers
Regia: Jim Jarmush
Anno: 2005
Cast: Bill Murray, Jeffrey Wright, Sharon Stone, Frances Conroy, Jessica Lange, Tilda Swinton