Sibiu, Romania | Dove le case hanno gli occhi
Può capitare, nel giungere la mattina in una Sibiu sonnolenta in punta di piedi, di non riuscire a scrollarsi di dosso la sensazione di essere osservati. Non si capisce subito da chi, o da dove. Eppure, eccola lì: quel brivido freddo lungo la schiena, apparentemente incomprensibile. Certo, la Transilvania gioca da sempre con la propria fama di “terra di Dracula”, con i suoi riferimenti al gotico, alle tenebre, al mistero. Ma non è questo, no.
Soltanto arrivati nella piazza principale della città, Piata Mare, ci si rende conto dell’origine di quell’angoscia primordiale che un po’ ti attanaglia lo stomaco. Le case hanno gli occhi. Ogni antico edificio, dal tetto spiovente e facciata dallo stile marcatamente gotico, vanta una serie di minuscole finestrelle costruite per ricordare appositamente un occhio inquisitore dalle palpebre pesanti, che ti scruta e giudica dall’alto della soffitta locale. Tra una piastrella rossiccia e l’altra, queste finestrelle sembrano spesso essere state allineate, poi, a formare i vertici di piccoli triangoli.
Non è paranoia, non è il Grande Fratello in visita ad una Romania che ancora sfugge ai percorsi turistici classici dell’Europa Orientale. È, piuttosto, retaggio di una storia locale particolare ed affascinante, che trova le sue radici nelle ondate migratorie dei Sassoni verso la Transilvania. Secondo la leggenda sarebbero stati proprio i popoli germanici insediatisi nel centro città a costruire gli occhi per intimidire la popolazione locale e assicurarsi che tutti si attenessero alle nuove regole portate dall’ovest. In realtà, a sentire la tenera guida turistica che ci trascina come una scolaresca da una parte all’altra di Sibiu, questo abbondare di occhi e triangoli sarebbe da imputare alla presenza di diversi massoni all’interno dell’elite cittadina e di conseguenza a un fiorire di simboli massonici riconoscibili sparsi qui e là in bella vista. Praticamente il paradiso dei complottisti.
Se ci si abitua all’idea di essere costantemente seguiti con lo sguardo da case secolari, poi, Sibiu – o Hermannstadt, come ancora a distanza di secoli i germanofoni si ostinano ad appellarla – ha una singolare capacità di ammaliare, con la sua aria di chi le ha viste tutte, di decennio in decennio, eppure è rimasta fieramente fedele a sè stessa. Certo, forse una delle ragioni per cui il Paese ultimamente comincia ad attirare l’interesse di quegli sbandati che hanno qualche scarso soldo in tasca e lo vogliono assolutamente spendere per scappare dalla normalità nella fretta di un weeked – me compresa – è il fatto che il cambio euro/leu è una palese istigazione all’alcolismo, ma non è il solo motivo (forse). Sono le casette variopinte del centro, con i loro colori pastello più vicini ad una fiaba che agli anni di dittatura che il Paese stenta a lasciare alle spalle. Sono le piazze ariose e colme di vita; sono gli allegri baristi che al primo timido raggio di sole colonizzano i marciapedi con tavolini e ombrelloni per aperitivi generosi dai prezzi a dir poco popolari. È anche una lingua che ti fa sentire a casa, come se in fondo, a chilometri e chilometri dal confine si fosse conservata una colonia di migranti che parlano lo stretto dialetto di un dimenticato villaggio italiano.
La Città Vecchia – che abbraccia la grande Piata Mare, la più timida ma graziosa Piata Mica (letteralmente “piazza piccola”, perchè a volte la fantasia non abbonda) e Piata Huet, dove sorge l’imponente Chiesa dei Gesuiti – è un viaggio nel tempo e nello spazio che sembra catapultare talvolta in un ristretto borgo medievale difeso con le unghie e con i denti dagli invasori, talvolta nello splendore di un barocco Impero Austroungarico, talvolta ancora nell’Oriente più profondo delle chiese ortodosse, dell’oro e dei mosaici. A spezzare l’incantesimo è ciò che rimane delle mura della città. Cammini spensierato, perdendoti tra sguardi inquisitori e edifici scrostati colmi del fascino della decadenza, quando incappi involontariamente nel mondo reale. Oltre le grosse mura di pietra, fondamentali un tempo per tenere alla larga dal florido centro culturale e commerciale i nemici così come i poveri bifolchi delle campagne, scorre implacabile la vita reale.
La si può osservare, con una punta di fastidio, anche dalla punta del campanile più alto della città – o dalla squadrata Torre del Consiglio che troneggia tra le due piazze principali. Scalini e scalini per godersi il panorama idilliaco delle alpi transilvane che abbracciano, nei colori caldi del tramonto, una città che comincia ad addobbarsi a festa per la sera in un brillare continuo di lucine e la vedi. La città nuova, in tutto il suo squadrato e pragmatico stile comunista. Un ricordo incancellabile di anni che hanno mutato completamente il volto di Sibiu con una disperata migrazione di massa verso Austria e Germania; un senso di disagio ben più profondo di quello che ti accoglie all’arrivo in città.
Un’architettura anonima e monolitica, che con la romantica tranquillità di questa perla transilvana non ha nulla da spartire e che richiama una citazione inflazionata ma necessaria.
“Big Brother is watching you”. Non attraverso qualche tetto gotico costruito da antiche logge massoniche, ma da una ben più recente storia di repressione e dolore che pur sembra aver lasciato il volto di Sibiu forse più triste, sì, ma non irrimediabilmente sfregiato.