Il suono dell’età del ferro | Alessandro Alessandroni
Fine Settembre 2015, Milano – più di preciso, via di Porta Ticinese.
La luce delle giornate, più breve e meno intensa di quella estiva, raccoglieva per le strade uno sciame fitto e discontinuo di persone: ragazze con cappelli a falde larghe e stivali di pelle neri si aggiravano per boutique e botteghe dell’usato, turisti nordeuropei rossi come aragoste sedevano per il pranzo ai tavoli all’aperto dei ristoranti, giovani di ogni tipo si fermavano per leggere le scritte murarie e osservare le piccole opere di cui la via è tappezzata, compiti signori in completo si dirigevano chissà dove a passo svelto. Io e Piero passeggiavamo senza meta, sedendoci ogni tanto per fumare, parlare, guardar passare la gente. Quel pomeriggio la noia portò in un negozio anche noi, Serendeepity si chiamava e aveva un’insegna dal logo accattivante: un disco nero da cui scendevano un bel paio di cosce. All’interno, a destra rispetto alla porta d’ingresso, un mucchio di ultimi numeri di riviste musicali inglesi; in fondo qualche maglietta proveniente da fondi di merchandising e altri vestiti da niente; per tutta l’area del locale scaffali con dentro centinaia di vinili. Molta techno, parecchia EDM, pochissimo rock, quasi nessun disco di musica italiana.
Spulciavo con curiosità e poca convinzione il materiale sotto le etichette che indicavano il nome dei generi che mi piacciono e ascolto di più quando mi arrivarono alle orecchie suoni ritmati, alienanti, allucinati, torbidi. Bellissimi. In lontananza, brandelli di conversazione tra il ragazzo dietro il bancone della cassa e un avventore: ‘’Suoni stupendi… Oh, ed è uscito più di trent’anni fa’’. Quando il dialogo tra i due fu terminato, mi avvicinai:
– Scusa, ma che disco è?
– Questo qui
Mi mostrò un 45 giri che aveva poggiato accanto. Copertina minima e d’impatto: sfondo bianco panna, al centro l’estremità superiore di un martello con la testa arrugginita e il manico in legno su cui era aggrappato un picchio in procinto di rifarsi il becco da lì a poco. Sopra l’illustrazione, la scritta (Industrial by Alessandroni) – titolo del disco. Chiesi un foglietto e una penna, mi segnai il nome dell’album, misi il pezzo di carta in tasca, ringraziai, salutai, andai via.
Mesi più tardi mi sarei ricordato di quel pomeriggio durante la pulizia del portafogli. Riuscii a trovare il disco e a scaricarlo da internet da pagine in lingua russa (per inciso, mi fa paura la quantità di cose che riuscirei a fare per avere qualcosa su cui mi sono fissato) e dopo diversi tentativi andati a vuoto. La qualità degli arrangiamenti di quelle quindici tracce – ognuna chiamata con nomi di processi, strumenti, metodi e tecniche di produzione – era assoluta. Ogni pezzo era suonato in analogico e con strumenti classici. Assomigliava molto a Clic, uno dei primi dischi di Battiato, ma lì l’intento era avveniristico ed elettronico, qui invece lo spirito era quello di ricreare il suono pesante e ossessivo dell’atmosfera di fabbrica, luogo allora al centro del conflitto sociale e politico (parliamo della seconda metà dei Settanta).
A comporlo, Alessandro Alessandroni, amico di Morricone, ai più noto come ‘’fischio’’ nelle colonne sonore degli spaghetti western, ma non soltanto: allievo di Nino Rota, polistrumentista, uno degli ultimi membri viventi di una generazione di musicisti e compositori italiani cosmopoliti, sofisticati e attenti alle tendenze musicali internazionali, le cui opere non sono mai state prese in considerazione in questo Paese se non da una strettissima cerchia di appassionati, spentosi a Roma lo scorso 26 marzo.
Adesso , mentre scrivo questa benedetta tesi di laurea sulla letteratura industriale e consumo gli occhi su pile di libri e provo a restare in equilibrio tra termini enormi come ‘’fordismo’’, ‘’organizzazione del lavoro’’, ‘’conflittualità operaia’’ e così via, quell’album mi accompagna e diamine se non continui a essere una delizia per le orecchie.
Grazie, Maestro, e buon viaggio.
Francesco Corbisiero